Archivi del mese: febbraio 2018

II Appuntamento con Agricoltura Organica

Il secondo appuntamento con il docente Matteo Mancini, promotore dell’ Agricoltura Organica di Deafal ONG, è avvenuto lo scorso 21 Gennaio 2018 (https://lamasena.net/2017/12/13/lapproccio-del-circolo-lamasena-allagricoltura-organica-rigenerativa/) . Luca Pupparo e la Dott.ssa Laura Quattrociocchi gli organizzatori dell’evento, stavolta hanno scelto come luogo di incontro la sede operativa del circolo Legambiente Lamasena a Scifelli (https://lamasena.net/2018/01/31/agricoltura-organica-e-rigenerativa/). La caduta delle foglie durante la stagione autunnale appena trascorsa, la degradazione delle carcasse di animali o qualunque altra forma di materia vivente che diventa non vivente, non fa altro che contribuire alla deposizione delle Sostanza Organica (SO) nei suoli. La SO può andare incontro a processi di umificazione o mineralizzazione a seconda delle condizioni ambientali. Nel primo caso essa rilascerà alle piante che ne trarranno nutrimento, l’humus, nel secondo invece essa rilascerà componenti minerali.

Il docente Matteo Mancini ha ricordato l’importanza del processo di umificazione e la capacità di ritenzione dell’acqua dell’humus: un kilogrammo di humus infatti è in grado di trattenere circa 20 litri di acqua.  Il suolo inoltre è il secondo ambiente dopo gli oceani più ricco in carbonio, rappresenta una forma di riserva del carbonio, riserva che tende a diminuire ogni qual volta che le attività antropiche che impattano su di esso sono troppo brusche, a tal punto da provocarne un’ossidazione e una perdita sottoforma di anidride carbonica. Fino agli anni ’50, il contenuto medio della SO sui suoli italiani, si aggirava intorno al 75%. Dagli anni ’50 a oggi, si è osservato un progressivo impoverimento della fertilità, fino a raggiungere un contenuto medio si SO < 2%. Un suolo che sta bene in salute, presenta un buon grado di fertilità, mineralizzazione, drenaggio dell’acqua, possiede un’ottima capacità tampone, riesce a mantenere più o meno costante la propria temperatura rispetto a quella dell’ambiente aereo sovrastante.

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È stata eseguita un’analisi qualitativa del suolo circostante la sede operativa del circolo Lamasena, sondando il terreno con una vanga, prelevando suolo ad una profondità di circa 20-30 cm dalla superficie. Le prove andrebbero eseguite in condizioni di tempera, ovvero su suolo né troppo umido né troppo asciutto ed in primavera in quanto crescendo più piante si ha il massimo della vitalità. Lo strato di suolo immediatamente sottostante alla superficie, corrisponde a quello più ricco in humus (se presente) e nel suolo del circolo, è apparso abbastanza ricco in humus, di colore più scuro, in quanto quel terreno è da tempo non soggetto a meccanizzazione. A corroborare questa ipotesi, c’è stata la presenza dei lombrichi in questo strato, non sempre indicatori positivi. Certamente indicatori di fertilità e quindi di presenza di SO, ma a volte sono indicatori di zone di compattamento del terreno, soprattutto quando spostati più in superficie. Scendendo ancora più in profondità allo strato di humus segue uno strato di colorazione visibilmente più chiara e tendente al marrone, in cui è stato possibile osservare la presenza delle radici delle piante erbose colonizzatrici del suolo. L’osservazione delle radici permette di capire se il terreno è dotato di sufficiente morbidezza oppure viceversa tende ad essere più duro e resistente. Nel nostro caso le radici avevano una andatura diritta e non contorta, ad indicare un suolo soffice. Se il campo fosse stato soggetto a meccanizzazione ad esempio da un frangizolle che ara superficialmente a 20-25 cm di profondità, ricorda il docente, si sarebbe creata una soletta di lavorazione , sia per le radici che si sarebbero contorte, sia per l’acqua, la quale non avrebbe potuto drenare nel terreno, sarebbe ristagnata e avrebbe provocato erosione nel suolo (fenomeno superficiale), oppure se protratto nel tempo il ristagno avrebbe provocato smottamenti e frane (fenomeni profondi). L’azione delle radici nel suolo infatti è soprattutto meccanica, che protegge il suolo dal fenomeno dell’erosione, trattenendo aggregati di terreno sottoforma di particelle sferiche, che ironicamente il docente definisce “cous cous di terra”e rappresentano l’indicatore più importante della fertilità di un terreno.

Si prosegue con la diagnosi del terreno, analizzando prima la struttura e poi la tessitura. Per quanto riguarda la struttura, si analizza la presenza di piccoli sassolini nel terreno, fondamentali in quanto il 50% del terreno quando fertile, dovrebbe essere costituito da spazi, zone di aria,  che agevolano il passaggio delle radici. In caso di meccanizzazione, il peso della macchina, pressa il suolo a tal punto da compattare il 40% degli spazi di aria presenti, che vengono persi.

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Il suolo del circolo ancora una volta ha dato esito semi-positivo, presentando sassolini ma non molti spazi di aria. Dal punto di vista della tessitura, si va ad analizzare la presenza di sabbia, limo e argilla. In presenza di argilla, le particelle di terreno presentano una dimensione inferiore a 0,002 mm. Qualitativamente in assenza di metodi metrici, si può provare a impastare una qualunque forma con le mani, anche geometrica e vedere se il suolo resta fissato in quella forma, se torna nello stadio iniziale senza forma, allora non ho abbastanza argilla nel suolo (inferiore al 30%), mentre se riesco a creare qualcosa, il contenuto di argilla è approssimabile al 70-80%. La forma non si è mantenuta per cui il suolo del circolo non presentava molta argilla. La presenza di limo viene testata aggiungendo poca acqua ad una poltiglia di suolo, e strofinandola con l’attrito si genera schiuma. Nel nostro caso è risultata abbondante la presenza di limo. La presenza di sabbia (in proporzione restante delle due) e quindi di silice nel terreno, diminuisce la capacità di trattenere acqua, data la sua carica negativa è capace al contrario di attrarre minerali.  L’argilla dunque trattiene l’acqua, mentre la sabbia della tessitura trattiene principalmente i minerali. L’argilla per di più offre le condizioni per il mantenimento di un’elevata fertilità chimica e biologica. Il limo ha proprietà intermedie fra quelle della sabbia e quelle dell’argilla. La diagnosi del suolo prosegue analizzando dal punto di vista dell’olfatto, come si presenta un campione di suolo. Esistono due odori “estremi”da considerare, l’odore di bosco da un lato, la condizione ideale, oppure la condizione peggiore l’odore di fogna, in mezzo a questi due una varietà di odori possibili che si allontanano/avvicinano a uno degli estremi. Dalla valutazione dell’odore si percepiscono quali reazioni biochimiche avvengono nel terreno. L’odore di bosco infatti si identifica nella produzione di un particolare metabolita, la Geosmina, la quale anche a concentrazioni molto basse, da un forte sentore di terra e di fungo al sensibile naso di noi uomini. Viene prodotta soprattutto dagli Attinomiceti, in particolare gli Streptomiceti, un genere di batteri aerobi che formano miceli vegetativi ed è lo stesso odore che assume il compost quando prodotto bene aerobicamente. Nel terreno testato l’odore non era molto gradevole, non è stata percepita la Geosmina, altresì è stato percepito un odore di fogna, e dunque il prevalere di fenomeni anaerobici, gli stessi che caratterizzano l’odore di un biodigestato. Il docente è arrivato alla supposizione che il sovrapascolamento (poi confermato) ha creato una crostina superficiale in cui il terreno si è compattato dando luogo ai fenomeni anaerobici distruttivi. Si è passati al Test del perossido di idrogeno (H2O2), con l’intento di ossidare la SO per testare la sua abbondanza. Quanto più veloce e tanto più persiste la reazione al perossido (produzione di anidride carbonica attraverso bollicine di gas), tanto più l’SO è abbondante. Nel nostro caso l’SO è abbastanza abbondante. Nel Test al carbonato di calcio (CaCO3), eseguito versando il succo di limone (acido citrico) sul terreno e osservando quanto reagisce con esso, anche in questo si osserva la liberazione dell’anidride carbonica sottoforma di bollicine di gas. Il terreno sotto analisi è risultato povero di carbonato di calcio. Il CaCO3  è importante soprattutto per il pH del terreno che va a determinare l’assimilabilità dei minerali. Inserendo un coltello in parallelo al terreno all’interno della buca creata dal sondaggio con la vanga, si è riscontrata resistenza all’inserimento, per cui si conferma che la costipazione di animali ha compattato il terreno. La presenza di buche sulla copertura del terreno ha altresì confermato il segno di sovrapascolamento, dove soprattutto in caso di pioggia, gli animali compattano e impermeabilizzano il terreno. La copertura di piante erbacee è pressochè del 60-70%. L’inerbimento naturale infatti è il risultato di una interazione tra animali e suolo, è necessario che il suolo mantenga sempre una folta copertura di erbe.

Analisi qualitativa terreno (0-30 cm)

(Sede operativa del circolo Lamasena, Scifelli)

Proprietà Presenza Assenza
Struttura Fertilità
Lombrichi
Sassolini
Radici diritte Radici contorte
Tessitura Argilla (20-30%)
Limo (40-45%)
Sabbia (25-40%)
Reazione all’acqua Scarsa permeabilità dell’acqua
Reazioni biochimiche Fenomeni anaerobici putrefattivi Geosmina, aerobiosi
Test H2O2 Poche bollicine (media SO)
Test CaCO3 Pochissime bollicine CaCO3
Test del coltello Resistenza, compattamento Areazione
Sovrapascolamento Buche, copertura 60-70% Copertura omogenea
Trattamento consigliato:  è necessaria una riossigenazione del terreno. Si potrebbe fare una semina a spaglio di piante rigenerative come Trifoglio, avena, veccia, senape in primavera.

Nella seconda parte del corso, sono stati rivisti i vantaggi dell’uso delle cover crops o colture di copertura, ampiamente utilizzate in Agricoltura Organica e l’importanza della lavorazione del loro apparato radicale a profondità diverse, soprattutto in contesti problematici di ristagno dell’acqua. Le cover crops infatti oltre a dare un’azione strutturale al terreno, e di copertura erbosa anti-erosiva, permettono con l’autoconcimazione l’aumento del numero di microrganismi chemiosintetici (nitrosobatteri), i quali aumentano i processi di organicazione dell’azoto. Più azoto organicato significa più azoto disponibile e indirettamente più carbonio disponibile alle piante. Per cui può avere inizio anche il processo di umificazione. Gli acidi fulvici, le umine e gli acidi umici che costituiscono l’humus hanno una permanenza nel terreno di centinaia di anni.

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Si è proceduto alla produzione pratica di un bioconcimante fogliare da utilizzare come supporto alle colture che si vuole seminare su un terreno rinvigorito strutturalmente e dal punto di vista della tessitura.  Per preparare un biofertilizzante naturale,è necessario un bidone in plastica da 200 lt dotato di coperchio, e praticato un foro di circa 12 mm, si inserisce una guarnizione ed un gorgoliatore. All’interno bisogna immettere:

  • 100 lt di siero di latte (raccolto la settimana precedente);
  • 4 Kg cenere (o 4 kg farina di roccia, o 3 kg farina roccia e 1 kg di cenere);
  • 2 kg zucchero (in estate anche ½ Kg);
  • ½ kg lievito di birra o pasta madre;
  • Portare a volume (30 lt circa) con acqua non clorata.

 

Il siero della settimana precedente infatti ha avuto il tempo sufficiente alla moltiplicazione dei microrganismi durante i 7 giorni successivi alla raccolta. È un elemento ricco di proteine ed è antioidico, ovvero protegge dall’attacco dei funghi responsabili del “mal bianco”, ad esempio l’oidio della Vite (Vitis vinifera spp.). Il siero rappresenta dunque la parte viva del biofertilizzante in quanto ricco di microrganismi. La cenere (ripulita dal carbone) serve da substrato minerale dei batteri, questi ultimi infatti degraderanno la matrice minerale presente nella cenere, nutrendosene, gli elementi calcio, fosforo, potassio, sodio e magnesio contenuti nella cenere verrano fissati nei batteri, e dopo la loro morte, rilasceranno questi elementi. Si aggiunge lo zucchero ed il lievito dopo una loro attivazione in un altro contenitore mescolando con dell’acqua (ideale a 27-28°C). Infine si porta a volume con dell’acqua non clorata (quella potabile della rete idrica comunale non va bene in quanto è clorata, a meno che non si lascia decantare), per esempio raccolta da acqua piovana o acqua di sorgente, tenendo conto di fermarsi sotto la superficie del fusto di almeno 20 cm. È necessario infatti lasciare questo “spazio di reazione” in cui tutti i gas prodotti andranno ad accumularsi. Si agita mescolando bene il contenuto prima della chiusura. Si chiude il fusto e si inserisce un tubo flessibile nel foro creato sul coperchio, dilatando leggermente la guarnizione con un accendino, attraverso il gorgogliatore il tubo continua fino a riversarlo in una bottiglia che va riempita per ¾ di acqua e appesa ad un lato del fusto, all’interno della quale si formerà il biofertilizzante. Si controlla che si sia chiuso ermeticamente il fusto soffiando dall’estremità esterna del tubo e osservando se si gonfia il tappo del fusto. I microrganismi inizieranno da subito a lavorare e produrranno gas che andranno a riversarsi nella bottiglia, generando bollicine e i nutrienti prodotti si riverseranno nella bottiglia a lungo andare, cambiando la colorazione dell’acqua.

 

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Al posto della cenere, si può utilizzare un’altra materia prima minerale, più nobile, la farina di roccia, derivata dal basalto, roccia vulcanica più ricca dal punto di vista minerale, circa 25-30 minerali diversi, tra cui il silicio importante per aumentare la capacità fotosintetica delle foglie, attraverso l’aumento della superficie di riflessione della luce, funge da specchio ed è poco disponibile nel terreno. Il boro contenuto in essa è importante per l’allegagione dei frutti. Il rame invece è fondamentale per la fotosintesi, ma non bisogna eccedere in quanto è anche un metallo pesante tossico se riversato in grandi quantità.  La farina di roccia nel biofertilizzante può essere anche miscelata alla cenere. È inoltre buona come arricchente nel compost in rapporto di 1/10 (ad es. su 500 quintali di compost necessari a 1 ettaro di terreno, si possono aggiungere 50 quintali di farina di roccia). Se il terreno è povero di ferro, è consentito (anche in Agricoltura Biologica), l’addizione di solfati di ferro e magnesio in quantità di 2,3,4 kg all’anno. Questi dosaggi vanno mantenuti anche per l’addizione di boro, rame, magnesio o zinco. Nel biofertilizzante per un terreno con piante affette da clorosi ferrica (carenza di ferro) possono essere aggiunti i solfati, separati in due fusti (uno per il ferro, l’altro per il magnesio) in questi dosaggi:

  • 100 lt siero;
  • 3 kg farina di roccia;
  • 2 kg zucchero;
  • 0,5 kg lievito;
  • 0,5 kg solfato di ferro Fe2SO4 oppure 1 kg solfato di magnesio MgSO4;

Si ribadisce però l’importanza della fertilizzazione del terreno, in quanto se quest’ultimo è fertile, la pianta riesce a proteggersi di più dall’attacco dei funghi ad es. Peronospora, e quindi non è necessario intervenire con la concimazione chimica per la protezione delle malattie.

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In olivicoltura spesso si usa il caolino, un’argilla in grado di coprire foglie e frutti schermandoli dall’irraggiamento del sole, disorientando la mosca dell’olivo (Bactrocera oleae), questo può essere aggiunto al biofertilizzante di base cosi preparato, aggiungendo:

  • Per 100 lt di acqua:
  • 2 kg caolino
  • 1 kg calce spenta Ca(OH)2
  • 150-250 g solfato di rame CuSO4
  • 5 lt biofertilizzante

Questo biofertilizzante arricchito in caolino, va applicato nel mese di Luglio, prima della deposizione delle uova da parte della Bactrocera oleae. Ne va applicato in quantità rapportate alla dimensione/età della pianta di olivo ad esempio se la pianta ha 70-80 anni ne applicherò 4 litri di biofertilizzante a pianta, se queste avranno 35-40 anni, 2 litri a pianta. L’ideale  sarebbe di diluirlo al volume di acqua utilizzato per l’irrigazione; per la viticoltura in genere si usano  1000 litri di acqua/ettaro di terreno, in questo caso si possono diluire 60-70 lt di biofertilizzante in questi 1000 lt acqua/ha. Si può applicare nei primi anni quando il terreno ancora non è stato fertilizzato e non ha recuperato la struttura. Al biofertilizzante può essere aggiunto anche il letame di animali, soprattutto i poligastrici, vaccini, ovini, caprini a questi dosaggi:

  • < 10 lt siero
  • 40 kg letame
  • ½ kg zucchero
  • ½ kg lievito

Di questo biofertilizzante addizionato di letame, in 1 ettaro (ha) di uliveto/vigneto, ne uso 60-70 litri.

Si consiglia di preparare i biofertilizzanti ogni anno.

Esempio: Ho 3 ha di terreno e voglio fare 5 trattamenti corroboranti nel corso della stagione, di ogni trattamento ne applico 70 litri, quindi ho bisogno di 350 lt di biofertilizzanti per ha di terreno, quindi per 3 ha di terreno ho bisogno di 1050 lt. Meglio produrli tutti insieme, quindi ad es. in un contenitore grande da 1000 lt e un fusto da 200 lt per rimanere comodi. Si distribuiscono con una pompa a spalla a motore, o con la barra o con l’atomizzatore da vigna a seconda delle disponibilità.

Per arricchire i terreni si consiglia invece l’uso delle cover crops che arricchiscono le colture. Le piante da sovescio, vengono seminate a spaglio (in autunno), si fresa leggermente per interrare i semi. Dopodichè arrivate allo stadio di bottone fiorale le piante da sovescio vengono (tarda Primavera) trinciate leggermente su se stesse, oppure ancor meglio della trincia, sfalciate oppure ancora viene passato un rullo a martelli che le alletta, incide il fusto ma non lo taglia e interra poco a poco i semi. I semi germoglieranno con la successiva stagione autunnale delle piogge, ricoprendo di nuovo il terreno. Delle piante da sovescio allettate invece, avverrà prima la degradazione della leguminosa, più appetibile ai batteri e poi quella della graminacea. Il terreno cosi facendo rimane sempre coperto, non viene eroso e no perde la SO che gradualmente accumula con la degradazione delle colture da sovescio. La copertura del suolo inoltre evita che le spore della Peronospora colonizzatrici dei vigneti ma non solo, si disperdano con la pioggia e schizzino dal terreno sulle foglie, promuovendo l’infezione. Se voglio più carbonio e fertilità permanente, scelgo sovesci di Graminaceae (Poaceae), se voglio più azoto utilizzo sovesci di Leguminose, ad es. orzo insieme a favino, oppure farro (o triticale) insieme alla veccia, oppure ancora avena e sulla. Se voglio più struttura al terreno e areazione in quanto presenta costipazione, uso specie fittonanti come il trifoglio fittonante e le Brassicaceae. Dopo 3-4 anni di semina delle colture di copertura a ciclo annuale, si può passare alle coperture con colture perenni (es. loietto perenne, festuca dei prati, erba mazzolina) indice di pascolo evoluto, e si può raggiungere la vegetazione climax che ristabilisce le condizioni ideali che permettono al terreno di mantenere protetta la SO generata negli anni addietro di lavorazione con le colture di copertura.

Ancora una volta il Prof. Matteo Mancini, ha sorpreso i partecipanti al corso, e ha dimostrato loro con i suoi dati di lavoro, i numerosi benefici legati all’uso delle colture di copertura, i cosidetti sovesci. Durante il corso infatti non a caso, una partecipante ha ricordato come proprio nel territorio di Veroli, fino a circa 30 anni fa si praticava la semina di avena e veccia in autunno, poi in primavera si seminava sul letto creato da avena e veccia, il mais che cresceva cosi rigoglioso. Nulla di nuovo dunque, basterebbe ricordare quello che facevano i  nostri avi e tornare oggi, coscienti della funzionalità di questi metodi dopo il corso di Agricoltura Organica, a piantumare le colture da sovescio come una volta.

Dott.ssa Sara Leo