Archivi categoria: Tradizioni ed Antichi Saperi

Il territorio di Santa Francesca di Veroli

Il territorio del Comune di Veroli, oltre al capoluogo comprende otto frazioni nate come antiche parrocchie e sono: Casamari, Castelmassimo, Colleberardi, Giglio di Veroli, San Giuseppe le Prata, Sant’Angelo in Villa, Santa Francesca e Scifelli. Si estende per circa 120 km² confinando a nord con l’Abruzzo (Balsorano, San Vincenzo Valle Roveto e Morino ), a nord-ovest con Alatri, e Collepardo, ad ovest con Alatri, a sud-ovest con Frosinone, Torrice, a sud con Ripi e Boville Ernica, a sud-est ed a est con Monte San Giovanni Campano, ed a nord-est con Sora. Esso presenta una forma oblunga di cui la parte che si incunea a nord-est verso la Valle di Roveto (Abruzzo), rappresenta il territorio della Frazione di Santa Francesca. Occupando circa un terzo del territorio di Veroli. Con un areale rappresentato da un tratto dei Monti Ernici, le cui vette principali sono Monte Passeggio (2064 m), Pizzo Deta anche detto Peschiomacello (2041 m), Monte Fragara (2014 m), Serra Comune (1861 m), Cima d’Erba (1851 m), Monte delle Scalelle (1843 m), monte Pedicinetto (1776 m), Monte Pontecorvo (1596 m) e Monte dell’Arco. Dal punto di vista idrologico, numerosi sono i corsi d’acqua sotto forma di fossi e torrenti, il più importante per portata è il torrente Amaseno Ernico, che assieme al fosso di San Cesareo in passato, prima dell’avvento dell’energia elettrica, ospitavano mulini in pietra azionati ad acqua.

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L’incontro a Scifelli con il Sentiero Agrobiodiversità Ciociara

Di dr. Agr. Marco Cinelli
Sabato, 19.01.19 a Scifelli di Veroli, il territorio ciociaro ha vinto!!! L’incontro, organizzato da Lamasena Circolo Legambiente, che ha riunito i protagonisti di tante produzioni d’eccellenza della provincia di Frosinone, nel campo agricolo, zootecnico e della trasformazione agroalimentare, associazioni ed enti istituzionali, ha evidenziata la Ciociaria possiede capacità di cooperazione.

Tavolo delle varietà di Mais con il piccolo mulino domestico

Il seminario divulgativo, che rientra nella seconda attività del Progetto “Sentiero Agrobiodiversità Ciociara” finanziato dall’ ARSIAL grazie alla Legge n. 194 del 2015 “Tutela e Valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo ed alimentare” e promosso dall’ Istituto Agrario Frosinone – azienda agraria tramite il Responsabile del Progetto, il Prof. Giuseppe Sanna, ha avuto l’obiettivo di far conoscere e discutere di agrobiodiversità Ciociara, ma non solo, con le molte varietà vegetali e razze animali iscritte nel Registro Volontario Regionale.

Varietà di Mais

L’incontro ha fornito sorprendenti testimonianze che hanno fotografato un mondo attento e rispettoso del territorio, come ha ricordato padre Antonio Caboni che ha richiamato a riflettere sul fatto che il nostro prossimo, prima di ogni altro, è la Madre Terra.
Il tema cardine della giornata è stato il Mais e la tipica polentata di S. Antonio.
Si è partiti iniziando a parlare della varietà di Mais Agostinella, così chiamata perché  matura proprio in agosto, tipica del territorio di Vallepietra e già iscritta nel Registro Volontario Regionale, coltivata da RES Ciociaria che semina, inoltre, altre varietà a rischio di estinzione come il Fagiolone di Vallepietra.
Proseguendo con il Mais “Marano“, coltivato tipicamente in Via Marano a Ceccano, che Istituto Agrario Frosinone – azienda agraria coltiva. Varietà probabilmente pervenuta da territori nordici, così come il Mais “Quarantina“, il cui nome, ha spiegato il Dr. Agr. Igino Magliocchetti della Fattoria Didattica Marilù, deriva dalla formazione della spiga dopo circa 40 giorni dalla semina. Proseguendo con il “Mais a 8 file” di Luca Pupparo che insieme all’ Associazione “Amici Sagra Della Crespella” hanno recuperato in concomitanza con la riscoperta degli antichi mestieri.
Approfittando della presenza del Dr. Agr. Roberto Rea, referente ARSIAL per il territorio della provincia di Frosinone, le persone coinvolte hanno avuto modo di segnalare numerose varietà di mais e altre specie vegetali coltivate nel territorio verolano e ciociaro.
Una platea attenta ha ascoltato gli interessanti stakeholder che hanno parlato della loro esperienza d’impresa che ha come filo conduttore la coltivazione o l’allevamento, di varietà o di razze tutelate poiché a rischio d’estinzione, ma anche della commercializzazione dei prodotti da loro derivanti. Marco Marrocco della Azienda Agricola Biodinamica Palazzo Tronconi – Cantina&Osteria ha parlato della coltivazione di varietà viticole autoctone della Ciociaria e delle tecniche di coltivazione e vinificazione biodinamiche e dei vini prodotti che riesce, già oggi, ad esportare in tutto il mondo; Daniel Chiarlitti della La Ciera dei Colli Soc.Coop.  ha illustrato la produzione di olio ottenuto dalla molitura della Cultivar “Ciera dei Colli” ; Leonardo Tatangelo, dell’omonima azienda agricola che produce Aglio rosso e broccoletto di Castelliri, l’esperienza decennale di Paolo Scala dell’ @associazione produttori Aglio Rosso di Castelliri; e ancora, Irene Vano dell’azienda agricola SoloNero Casertano che alleva il Pelatello nero Casertano e produce prelibate carni; Goffredo Todini , della originalissima Oleoteca in Veroli Olea Salus ha testimoniato la necessità di approcciare la commercializzazione dei prodotti tipici con una visione che ne valorizzi l’univocità e la qualità.
Dopo aver riempito la mente i partecipanti hanno avuto modo di riempire anche la pancia degustando la tradizionale polenta di S. Antonio realizzata con farina di mais bramata, macinata al momento, della varietà Agostinella, condita o con sugo di salsicce, spuntature e pancetta del maiale nero casertano arricchito di olio di Itrana del Frantoio di Luigi Cocco o nella versione in bianco con i broccoletti di Castelliri, spolverata di Pecorino stagionato di Picinisco, gentilmente offerto dal La cantina dei sapori e arricchita con olio di Ciera dei Colli.
A sottolineare il valore nutrizionale della polenta è stata la Dott.sa Lorena Abballe Biologa Nutrizionista che ha illustrato l’importanza della polenta nella dieta mediterranea, alimento ricco di vitamine e sali minerali, con un basso indice glicemico sottolineando anche i rischi dovuti ad un eccesso nel consumo di questo alimento come succedeva un tempo.
Il seminario ha registrato la presenza di diverse amministrazioni comunali, pertanto, si ringrazia – per la loro fattiva presenza – il sindaco del Comune di Veroli, Simone Cretaro, che ha aperto il seminario con il suo saluto introduttivo, gli amministratori di Strangolagalli: Patrizio Perciballi e Dino Belli e gli amministratori di Castro Dei Volsci con i saluti di Massimo Lombardi e la presenza dell’assessore all’ambiente Normalenti Pier Luigi che tra l’altro stanno lavorando, anch’essi con l’ARSIAL, per il recupero di un’antica varietà di vite chiamata “Cimiciara“.
Si ringrazia inoltre Giovanni Rondinara del GAL Ernici-Simbruini, la Pro Loco Veroli, la Pro Loco Monte San Giovanni Campano, la Pro loco Castro dei Volsci, @l’associazione la scarana e la Proloco Strangolagalli
L’evento ha rappresentato un momento di confronto per annodare collaborazioni e fare sinergia per poter progettare una migliore organizzazione per la fruibilità di tutto il territorio,  anche in chiave turistica, come ha ricordato la guida Nicoletta Trento.

Valorizzazione delle colture locali

L’incontro a Scifelli, del 19.01.19,  ha rappresentato un facile pretesto per riunire i protagonisti di tante eccellenze (come si direbbe oggi, gli stakeholder delle produzioni locali) nel campo delle produzioni agricole, zootecniche e di trasformazione della Ciociaria.

Il seminario ha avuto l’obiettivo di discutere di biodiversità delle specie di mais autoctone attraverso la competenza dell’ARSIAL che ha messo a disposizione uno specifico bando  in cui il circolo Lamasena ha partecipato come partner. Al riguardo, sono stati significativi gli interventi del tecnico dell’ARSIAL, Dr. Agr. Roberto Rea, e del rappresentante della scuola capofila del “Progetto Agrobiodiversità Ciociara” dell’istituto Agrario Angeloni di Frosinone, prof. Giuseppe Sanna. Entrambi hanno ribadito lo sforzo dei due enti a difesa della biodiversità che fa uso dello strumento del “registro volontario regionale” delle risorse genetiche autoctone, a rischio di erosione, per il settore vegetale e quello animale.

Scambio delle sementi di Mais

L’incontro ha fornito testimonianze sorprendenti che hanno fotografato un mondo attento e rispettoso del territorio, come ha ricordato padre Antonio Caboni che ha richiamato a riflettere sul fatto che il tuo prossimo, prima di ogni altro, è la Madre Terra.

Nelle nuove esperienze d’impresa dei relatori si è denotato un filo conduttore che si riallaccia direttamente ai nonni. Quest’ultimi si sono mostrati i veri portatori di saperi di grande utilità sul nuovo percorso imprenditoriale che si sta delineando, come ha sapientemente ricordato Igino Maglioccetti della fattoria didattica Marilù.

Il senso di questa nuova stagione di imprese artigiane ed agricole risiede proprio nel fatto che esse stanno recuperando le eccellenze delle produzioni tipiche che erano state dimenticate durante gli anni dell’euforia del boom economico che si è affacciato in Ciociaria dagli anni 70 e che, rovinosamente, è declinato a partire dal 2000. Anni in cui i padri hanno abbandonato la terra a favore della facile occupazione in fabbrica che ha presentato un conto salato,  non solo in termini economici ma anche di perdita d’identità e di una  grave eredità costituito da un   inquinamento che funesta la valle del Sacco.

Varietà Mais presentate durante il seminario

Il seminario ha dato voce a tanti giovani imprenditori che hanno raccontato il ritorno alla terra dei loro nonni dopo aver girato il mondo, aver preso titoli di studi ed aver, quindi, maturato una nuova consapevolezza della bellezza dei territori ciociari che va, nuovamente, riscoperta in chiave di rispetto territoriale e di opportunità occupazionale.

Una platea attenta ha ascoltato gli interessanti stakeholder che hanno parlato  della loro esperienza d’impresa.  Mario Marrocco, della casa vinicola Palazzo Tronconi,  ha parlato della sua azienda  che ha adottato tecniche  di coltivazione e vinificazione biodinamiche e che riesce, già oggi, ad esportare in tutto il mondo; Daniel Chiarlitti ha illustrato la produzione di olio attraverso la cooperativa “Ciera dei Colli” che ha selezionato il cultivar ciera che è uno scrigno di qualità e di resilienza, fitoresistente alla mosca olearia; molto significative e coinvolgenti sono state le testimonianza di Luca Pupparo e Stefano Quattrociocchi che hanno raccontato la genesi dell’associazione “Sagra della Crespella”, la quale nasce dalla necessità di giovani di S. Fracesca di Veroli  di voler ricominciare a coltivare gli antichi terrazzamenti dell’area pedemontana per produrre grano ed ortaggi biologici per uso domestico; Goffredo Todini, della originalissima bottega “Oleoteca”, ha testimoniato la necessità di approcciare la commercializzazione dei prodotti tipici con una visione che ne valorizzi l’univocità e la qualità, e – di conseguenza – ha rimarcato la stringente necessità di approcciare il mercato con il marketing e un pakaging coerente al valore dei prodotti; è stata significativa la voce di Claudia Fantini che ha ricordato le coltivazioni “eroiche” di Res Ciociaria e il suo principio etico – sottostante a questa impresa – in cui il motivo ispiratore del suo ideatore,  Arduino Fratarcangeli, è : il bene comune è il profitto migliore per tutti.

La giornata ha avuto un piacevole epilogo conviviale attraverso la degustazione della polenta di S. Antonio, realizzata con alcuni ingredienti  dell’eccellenza enogastronomica ciociara.

La sapiente preparazione della Polenta

Il seminario ha registrato la presenza di diverse amministrazioni comunali che stanno dimostrando, con atti specifici, un’altissima sensibilità ambientale che si sta traducendo in progetti per la realizzazione di isole ecologiche e nuovi parchi pubblici. Pertanto, si ringrazia – per la loro fattiva presenza – il sindaco di Veroli, Simone Cretaro, che ha aperto il seminario con il suo saluto introduttivo, gli amministratori di Strangolagalli: Patrizio Perciballi e Dino Belli e gli amministratori di Castro Dei Volsci con il suo sindaco Massimo Lombardi e l’assessore all’ambiente Pierluigi Normalenti.

L’evento ha rappresentato un momento di confronto per annodare collaborazioni e fare sinergia per poter progettare una migliore organizzazione per la fruibilità per tutto il territorio,  anche in chiave turistica, come ha ricordato la guida Nicoletta Trento.

Sentiero Agrobiodiversità Ciociara

Sabato 01/12/2918  si è svolta con successo, presso l’Azienda Agricola dell’Istituto Agrario di Frosinone (I.I.S “Luigi Angeloni), la prima giornata del Progetto “Sentiero Agrobiodiversità Ciociara“.
Progetto promosso dall’ARSIAL (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio) in attuazione della Legge 194/2015 che sostiene progetti di conoscenza, tutela e valorizzazione della biodiversità, sia animale che vegetale, di interesse agricolo ed alimentare a rischio di estinzione e di erosione genetica.
Tra le finalità dell’iniziativa è stata anche messa in luce la relazione tra l’agrobiodiversità e i prodotti agroalimentari tradizionali (i cosiddetti PAT), con la multifunzionalità delle aziende agricole, la cultura rurale, la storia e l’economia del territorio, i sistemi di agricoltura sostenibile, la filiera corta, la trasmissione dei saperi e del saper fare tradizionali e l’educazione ambientale.
L’attività, per ora, rivolta principalmente agli studenti dell’Istituto Agrario di Frosinone Frosinone Istituto Tecnico Agrario e dell’Alberghiero ed Agrario “S. Benedetto di Cassino” Istituto San Benedetto Cassino ha visto la collaborazione di alcuni partner tra cui l’associazione Lamasena Circolo Legambiente e svariate aziende agricole del territorio ciociaro “custodi delle risorse genetiche” tra cui L’Az. Agr. Il Gallo Larino di Roberto Dalia, allevatore e custode della Pecora Quadricorna, dell’Asino dei Monti Lepini ed del Pollo Ancona, L’ Azienda Agricola Biodinamica Palazzo Tronconi – Osteria&Cantina con i suoi vitigni autoctoni, Pamapanaro, Lecinaro, Maturano bianco e nero, Capolongo bianco e l’Olivella nera… L’Az. Agr. Az Di Palma Basilio con il Fagiolo Cannellino di Atina. L’Az. Agr. di Leonardo Tatangelo che coltiva l’Aglio Rosso di Castelliri e non solo… L’Az. Agr. Daniel Chiarlitti che coltiva la varietà di olivo “Ciera dei Colli” L’Az. Agr. La contrada del Nero  SoloNero di Irene Vano che alleva il Suino Casertano. L’Az. Agr. dell’ Istituto Agrario Luigi Angeloni che custodisce piante e semi di molte varietà, tra cui: l’Azzeruolo Rosso, il Melo Limoncella, il Melo Calvilla, il Pero Spinacarpi, il Pero Coccia d’Asino, il Peperone Cornetto di Pontecorvo, la Pomodorella Pofana etc…
L’agronomo dr. Luigi Tacchi, esperto in zootecnia,  dichiara che la giornata di oggi é stata un evento storico per l’istituto agrario di Frosinone per i temi affrontati e per la ricchezza di risorse genetiche autoctone coinvolte
Il Progetto, che costituisce un primo passo nella direzione della cooperazione tra le imprese del settore primario della Ciociaria, nell’augurio di creare una rete tra di esse per perseguire obiettivi comuni, ha come sua ultima finalità, oltre all’incoraggiamento della persistenza di sistemi produttivi tipici non intensivi, la costituzione di un itinerario provinciale di imprese agricole coinvolte nella salvaguardia delle risorse genetiche territoriali per incrementare il turismo rurale ciociaro legato alle produzioni tipiche locali.
Ci auguriamo che altre Imprese Agricole ed altri operatori/attori locali, in coerenza con i principi preposti, entrino a far parte del nostro ambizioso progetto
Dott. Marco Cinelli

Escursione all’insegna dell’Etnologia, dell’Archeologia e della Biodiversità

Il 19 agosto , su  invito dell’associazione culturale SS Antonio e Nicola di Vaglie San Nicola, il circolo Lamasena ha partecipato alla festa delle associazioni monticiane.
In occasione dell’evento il circolo  ha organizza una passeggiata che ha avuto lo scopo di avvicinare molti soci e curiosi ad una conoscenza più diretta della collinetta di Civitella  con i suoi reperti archeologici e le sue più recenti  radici rurali di fine ottocento ed inizio novecento.
Presso l’aia “Mengotte”  è stato interpretato  un racconto di Ugo Iannazzi (curatore tra l’altro, del museo  delle Genti di Ciociaria di Arce) che ha fatto rivivere gli usi e le abitudini della civiltà rurale in cui l’aia ne era il fulcro sociale e lavorativo. Sono state rievocate le modalità con cui si trebbiava  il grano e si mondava dalla pula (“cama“); si è riportato alla memoria il rito della scartocciatura del granturco che declinava in serate di festa popolare con i tipici canti ciociari; si è parlato dell’aia come centro in cui si svolgevano le piccole attività commerciali con le lunghe  discussioni tra i coloni e il proprietario terriero che imponeva le inique ripartizioni dei raccolti.
Il gruppo di escursionisti, proseguendo tra gli antichi  sentieri di Civitella,  ha potuto ammirare le mura poligonali/ megalitiche, che si estendono per circa 200 mt sulla sommità della collinetta e di cui ne restano importanti testimonianze,  nonostante l’incuria e la mancata salvaguardia.  Tali mura sono di II maniera e,  si reputa,   possano essere datate all’età del bronzo. Esse necessiterebbero di uno studio più accurato per definirne meglio sia la collocazione storica e sia l’identificazione più certa delle  antiche  popolazioni che hanno abitato tale luogo che, si suppone, siano state gli Ernici ( e , forse, i Volsci) che hanno condiviso  le sorti delle vicine città  di Arpino, Atina, Veroli, Anagni e Ferentino nella contrapposizione all’egemone potenza di Roma a cui hanno tenuto testa per circa 150 anni.
Nell’occasione,  il ruolo di mascotte della  passeggiata lo ha assunto un asinello  dell’azienda Gallolarino che promuove, attraverso la passione del suo titolare Roberto Dalia, l’allevamento di razze rare autoctone come la gallina Ancona, la Pecora Quadricorna, i Pony di Esperia e  la razza reliquia degli Asini dei Monti Lepini a cui appartiene, appunto,  la mascotte della passeggiata.

Alla ricerca della biodiversità e delle tracce storiche a Civitella

L’associazione Legambiente Lamasena si è posta, sin dai propri esordi, la volontà di rilanciare e promuovere l’utilizzo e la conoscenza del patrimonio storico, paesaggistico e ambientale. Per tale ragione, i soci hanno accolto con grande favore l’invito dell’ass. Culturale SS Antonio e Nicola di partecipare alla festa delle associazioni Monticiane (fissata per domenica 19 agosto 2018).

Nell’occasione, il circolo Lamasena organizza una passeggiata ecologica tra storia, natura e tradizioni popolari.  Durante la breve  escursione si cercheranno i resti delle mura poligonali presenti sulla parte più alta della collinetta di Civitella (in fraz. di  Vaglie S. Nicola di Monte San G. C. – FR.)   in cui –  si ipotizza – si insediarono nuclei abitativi delle antiche popolazioni pelasgiche.   Passando nei pressi  dell’aia “mengotte” si rievocheranno le usanze e le tradizioni della civiltà contadina di inizio secolo scorso in cui lo spiazzo circolare era il centro vitale di tutta Civitella. Nell’aia “mengotte” la comunità locale si dava appuntamento per lavorare o per socializzare. Nell’aia si battevano i covoni di grano e si mondava dalla pula (in dialetto “cama”), o si spogliava il mais , accompagnandosi con stornelli della tradizione contadina, o ci si riuniva nelle serate d’estate per raccontare storie e aneddoti.

La passeggiata sarà anche un pretesto per raccontare di biodiversità e di cibo a Km zero attraverso la voce di protagonisti che, silenziosamente ma con determinazione, portano avanti progetti di salvaguardia di razze rare e di recupero di terreni abbandonati per realizzare orti e coltivazioni biologiche.

L’appuntamento è fissato per domenica 19 agosto alle ore 8.30 a Vaglie san Nicola (MSGC). La passeggiata sarà allietata dalla compagnia
di asinelli dei Monti Lepini.

La frontiera nel territorio di Veroli all’epoca del brigantaggio lealista

Da Casamari salendo sul Monte Pedicino sino a giungere a Peschio Macello, dal 1400 circa al 1870, fu la zona di confine tra lo Stato Pontificio e il Regno Borbonico nel territorio del Comune di Veroli. L’ampio territorio comprendente le località di Scifelli, Fontana Fratta, Fontana Fusa, Case Cocchi, Tor dei Conti, Case Volpi, Case Verrelli, Colle Grosso, Santa Maria Amaseno, Prato di Campoli, Le Pratelle, Mugliera, Trasoto sino a Trisulti, che circonda la frazione di Santa Francesca, rappresenta un’area di notevole interesse storico a partire dalle testimonianze del basso medioevo per la presenza di una dozzina di eremi, alle strutture militari collegate alla gestione del confine e all’epidemia di colera, sino alle testimonianze connesse con il brigantaggio comune e quello della reazione contro l’espansionismo dei Savoia.

presentazione ufficiale del sentiero Chiavone

Presentazione ufficiale del sentiero Chiavone

La presenza di valichi, alcuni ancora oggi testimoniati dalla toponomastica: Vado della Rocca, Vado Veroli, Vado di Peschiomacello e Vado Rendinara, mettevano in relazione con l’Abruzzo, favorendo lo spostamento di persone, animali e cose dall’una all’altra parte del confine per realizzare scambi commerciali e attività di contrabbando. La linea di confine divideva i due Stati preunitari, ma non le popolazioni che vi abitavano. Esistendo un’integrazione profonda tra le famiglie dell’una e dell’altra parte del confine, gli scambi commerciali erano una prassi consolidata, che, principalmente, avvenivano sotto forma di baratto. Pertanto lana, carne, olio passavano nel Sorano, Isola Liri e Castelluccio odierna Castelliri; di contro, ortaggi, granturco, vino e tessuti entravano nel Verolano. La condizione socio-economica del 1800, tanto nel Regno Borbonico quanto nello Stato Pontificio, vedeva la società rappresentata da un numerosissimo ceto basso e da pochi benestanti che detenevano il potere e la proprietà delle fonti di ricchezza. Le persone del ceto basso, che rappresentavano la forza lavoro, erano impegnate come boscaioli, carbonai, pastori e contadini. Esse erano le principali attività del tempo, e pertanto, costituivano la più consistente entrata finanziaria per le casse degli Stati preunitari.
Le abitazioni dove vivevano, il più delle volte condivise con degli animali da cortile, erano anguste, buie, maleodoranti e con le pareti annerite dal fumo. Le numerose costruzioni rurali che ancora rimangono disseminate sul territorio ci testimoniano come le persone del passato vivessero e come utilizzassero gli spazi interni.
Il più delle volte gli stessi ricoveri agro-pastorali, testimoniati con foto a colori e descritti  nel capitolo dei ricoveri del volume “Veroli in Agro”, realizzati con mura a secco e copertura lignea, rappresentavano l’unica forma di casa (A. Lamesi, Veroli in Agro. Pozzi, sorgenti, ricoveri agro-pastorali, boscaioli, carbonai, neviere e transumanza, Veroli 2011). Nella casa del ceto basso ogni spazio aveva una funzione e non era raro che la stanza da letto fosse adoperata da tutta la famiglia sia per dormire, usando giacigli di fortuna, sia come magazzino.
La cucina aveva l’essenziale, una madia per il pane, un tavolo con qualche panca e sedia impagliata, degli scaffali o ripiani usati per posare i generi alimentari. Nel soffitto si applicavano delle pertiche dove posare carne da stagionare e formaggi da maturare.
L’acqua in casa era conservata in contenitori di rame detti conconi o in recipienti di terracotta, riposti su un ripiano in muratura. Nelle rare abitazioni più evolute, potevano essere presenti i fornelli per cucinare, ricavati in un piano in muratura alto circa 1,30 m costruito a ridosso di una parete, che venivano alimentati dalla brace della legna che ardeva nel camino, dove non mancavano la callarella (contenitore in rame per cuocere alimenti) e i tegami in terracotta (pignate e tiane).
Il bagno non esisteva, e per i bisogni fisiologici ci si rivolgeva all’ambiente circostante. E’ facile immaginare quali fossero le condizioni igieniche in cui i nostri antenati vivevano e, di conseguenza, contraevano malattie, oggi considerate completamente debellate. Non esistendo assistenza medica si curavano con quello che la natura metteva loro a disposizione e molto spesso il contagio di infezioni mortali che colpivano maggiormente i bambini, faceva ridurre il livello della vita media.
Il ceto basso non possedeva, né terre, né case, né masserizie, era gravato di tante tasse e veniva fatto vivere nell’ignoranza. Le famiglie erano normalmente composte da numerosi figli perché servivano braccia per lavorare, i più fortunati erano quelli che riuscivano ad entrare in convento.
La miseria cronica in cui versava il ceto basso per i continui soprusi che ricevevano dai proprietari terrieri, generava malcontento e spesso spingeva le persone alla macchia, luogo fecondo per gruppi di sbandati, specializzati in ruberie per sopravvivere. A Veroli, di questi fatti, i documenti storici ne danno notizia già dal 1300, come riportato da Marcello Stirpe nel (M. Stirpe, Verulana Civitas. Ricerche storiche (Biblioteca di Latium, 15), Anagni 1997, p. 201). Una notevole crescita del fenomeno del brigantaggio si ebbe nel 1810, con il rifiuto al servizio militare obbligatorio imposto dalle truppe napoleoniche. Numerosi sono i documenti archivistici che parlano delle azioni di questi uomini, considerati fuorilegge e numerose furono le azioni intraprese dai papi per reprimere il fenomeno. Nel volume Prospetto Istorico di Veroli a p. 232, Francesco Melloni descrive le azioni malavitose dell’ottobre del 1812 intraprese dl famigerato Pietro il Calabrese, rifugiato nel territorio montano di Santa Francesca. (F. Mellonj, Prospetto istorico della città di Veroli, a cura di G. Franchi, Veroli 1995, p. 232).
Oltre alla presenza di un confine facilmente valicabile che consentiva di passare dall’una all’altra parte secondo le necessità, ciò che fece di questa zona l’area preferita come rifugio per i briganti, fu anche la vastità e la durezza del territorio montano degli Ernici e la vicinanza dei monasteri.
Al brigantaggio originato dalla miseria cronica, in cui versava il ceto basso, nonché quello per il rifiuto al sevizio militare obbligatorio imposto dalle truppe napoleoniche nel 1810, si aggiunse il brigantaggio sviluppatosi tra il 1860 e 1862. Quest’ultimo fu definito sia “antinazionalista” perché estremo tentativo per impedire l’unificazione d’Italia da parte dei Savoia e “legittimista” in quanto favorito dagli esuli borbonici rifugiatesi a Roma e dallo stesso Stato Pontificio.
A guidare la reazione antinazionalista filoborbonica fu chiamato Luigi Alonzi, un guardiaboschi della Selva di Sora, nato nel 1825. Chiamato “Memmo” dagli intimi amici e “Chiavone” per la gente della contrada per le sue notevoli doti amatorie. A Scifelli, sino a tre anni fa era visibile un rudere detto “Stiro Chiavone”, di cui rimane documentazione fotografica, in cui soggiornò durante la campagna reazionaria e come narra la memoria popolare (Fiorini Maria nata a Scifelli, Veroli, il 25 aprile 1912 nubile e coabitante con la sorella Cristina coniugata con Ascenzi Giacomo ) con i suoi fedelissimi, allietasse le giornate in compagnia di donne del posto, che le tenne forzatamente.
Chiavone era un uomo scaltro e in tempi duri, prima di indossare la divisa da guardaboschi e quella da generale, fu un audace contrabbandiere della Selva e delle località tra Fontana Fratta, Scifelli e Santa Francesca. Con la lotta personale contro la Guardia Nazionale di stanza a Sora, conquistò la fiducia del Governo Borbonico.
Chiavone apparteneva al ceto basso e dentro di se albergava un grande desiderio di riscatto, così durante la sua breve vita si era specializzato nell’arte di arrangiarsi in ogni situazione e a carpire ogni possibilità di cambiamento che gli si presentasse.
Pertanto con il coinvolgimento alla reazione filoborbonica cercava gloria e onori per una vita migliore, ma le sue origini non passarono inosservate e fu così che divenne l’agnello sacrificale per sigillare gli accordi sottoscritti tra le diplomazie piemontese, pontificia e borbonica.
Egli non fu solo un brigante, ma passò alla storia come reazionario per essere stato scelto a guidare la reazione antinazionalista contro il re d’Italia.
La sua attività fu sorretta e finanziata sia dal re Francesco II di Borbone che dal papa Pio IX, come ci è dato sapere dal diario dello Zimmerman, luogotenente dell’Alonzi. In questi anni aveva posto quartier generale a Case Cocchi, borgo posto alle falde del Monte Pedicino detto all’epoca Monte Favone, nell’abitazione della sua compagna Olimpia Cocco. Egli arrivò a comandare un esercito regolare di 700 legittimisti, ai quali si aggiunsero volontari provenienti dell’esercito borbonico sconfitto a Gaeta, e nobili da mezza Europa, dislocati tra Fontana Fratta, S. Francesca e Scifelli.
Da quanto risulta dai registri della parrocchia di Santa Francesca, Olimpia nacque nel 1825 da Domenico Lisi e Andreana Sanità; con il matrimonio con Giacinto Cocco assunse il suo cognome. Quando conobbe Chiavone nel febbraio del 1861 era vedova con un figlio di nome Giuseppe, a cui Chiavone voleva bene considerandolo suo.
Olimpia fu per Chiavone sì un’amante, ma soprattutto una vera amica e consigliera. E tale rimase anche quando, costretto a spostare i suoi uomini alla Fossa dell’Ortica, sita a nord-est del Monte Pedicino a quota 1200, scortato da una ventina di fedelissimi scendeva da lei, approfittando del buio e rischiando più volte di essere catturato. Il suo coinvolgimento nella lotta durò fino al 28 giugno 1862, giorno della sua morte per fucilazione ordinata dal generale Tristany, inviato da Francesco II. Il suo corpo fu bruciato nella boscaglia di Valle dell’Inferno vicino Trisulti.(Sulla figura del N. vd. M. Ferri-D. Celestino, Il brigante Chiavone. Storia della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia (1860-1862), Casalvieri 1984; M. Ferri, Il brigante Chiavone. Avventure, amori  e debolezze di un grande guerrigliero nella Ciociaria di Pio IX e Franceschiello, Sora 2001; M.L. Scaccia, “Sora e la nascita del brigante Luigi Alonzi detto ‘Chiavone’”, in Quando c’erano i Briganti. Rilettura del fenomeno del brigantaggio, con particolare attenzione alla provincia di L’Aquila, al Cicolano e alla Ciociaria, [Pagliara di Borgorose 2002], pp. 257-274 e L.R. Zimmermann, Memorie di un ex Capo-Brigante “libero e fedele”. Traduzione commento di E. Di Biase, Napoli 2007.
Dopo la morte di Chiavone il brigantaggio legittimista cessò e i suoi uomini, abbandonati al loro destino, si dispersero in tante piccole bande che furono braccate dai piemontesi fino al loro totale annientamento.
Ancora oggi a Santa Francesca si ricorda del brigante Cedrone che, a protezione del grosso della banda di Chiavone situata alla Fossa dell’Ortica, si accampò a seconda della situazione ai Pozzi dei Piani, oppure a Pozzo Quagliolo e all’Acquaro del Nibbio, da cui controllava tutto il fianco pedemontano del Monte Pedicino sino alla vallata di Santa Francesca.
Dai contatti intercorsi durante ricerche condotte per il presente lavoro è emerso che suo parente Antonio Cedrone di S. Donato Val di Comino conserva il fucile di Cedrone ad avancarica con innesco a pietra focaia.
Domenico Foco, dopo la morte di Chiavone, prese le sue redini, capeggiando una banda di cento uomini, che fu avvistata dai militi del distaccamento dell’Amaseno il 18 marzo del 1866.
Francesco Francescone, soprannominato il “brigante di Casamari”, era nato a Sora nel 1841 da Antonio, detto “Polentone” e da donna Concetta, donna bella e di facili costumi, la quale lo abbandonò alle cure della balia Teresa Lombardo. In giovinezza, aveva militato dapprima nell’esercito borbonico, quindi, si era arruolato con la banda di Chiavone per divenire, alla morte di questi, squadrigliere papalino. Temperamento originale, battagliero e amante dell’avventura, ma forse anche spinto da necessità di sopravvivenza, partecipò a numerose imprese militari, tra cui la battaglia di Calatafimi e la difesa di Roma nel settembre del 1870, come soldato del papa. Arrestato nel 1873 per aver ferito con un pugnale una guardia nazionale a Sora fu condannato a dieci anni di reclusione nel carcere di Pianosa. Ne uscì nel 1884. Finì i suoi giorni facendo il guardiano dei monaci di Casamari nella loro proprietà dell’Antera. Sposò Oliva Martellacci da cui ebbe cinque figli, tre maschi e due femmine, il primo di nome Pio. (Profilo tratto dalla rivista cistercense anno I – numero 3) di Benedetto Fornari. Scelse per residenza una casa a Scifelli, tutt’oggi esistente, con le iniziali F.F. impresse sull’architrave dell’ingresso e di proprietà della famiglia Ascenzi, nella persona di Giacomo Ascenzi  che l’acquistò da Alberto Martellacci figlio di Giacinto.
Vincenzo Renzi detto “Grassone”, citato in una lettera anonima che lo denuncia per attività di cospirazione contro il Governo italiano, datata 11 agosto 1871. La lettera segnala l’esistenza di un deposito di armi nella casa del Renzi, costituto da doppiette, revolver, stili e coltelli di ogni tipo. Inoltre è sospettato di essere a capo di una congiura contro il Governo italiano. (Tratto da Giustizia e criminalità a Veroli tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra documentaria, Veroli Galleria La Catena – centro storico, 22 marzo-5 aprile 2003, a cura di M.E. Gabrielli-M. Grossi, s.i.l. [2003], p. [11]).
Verrelli Angelo Maria domiciliato a Case Verrelli è ricordato quale capo banda specializzata in sequestri di persona. Le fonti storiche fanno riferimento al sequestro di Egidio Vitale imprigionato sul Monte Tranquillo a Sora, a quello di Tambucci a Piperno, a quello perpetrato a carico di persona anonima residente a Roccasecca, sino al più noto commesso nei confronti del mons. Augusto Theodoli a Trisulti, al quale sottrasse l’anello strappandolo dal dito. (Giustizia e criminalità a Veroli tra Otto e Novecento cit., pp. [8 e 11-13]).
Altri documenti riferiti al periodo che va dal 9 febbraio al 13 ottobre 1874, fanno riferimento sia a somme disposte come taglia dalla Sottoprefettura di Frosinone, sia alle attività di Polizia per procedere all’arresto del Verrelli e recuperare gli scudi dei riscatti.
Ancora oggi il nome di molte contrade di Santa Francesca e alcuni soprannomi di persone ci ricordano uomini che furono nominati briganti: i Carinci, i Cerelli, i Baglione, i Cocco, i Frasca, i Renzi, i Trulli, i Marocco, i Pagliaroli, i Paniccia, i Lamesi, gli Aversa, i Baglioni ed i Quattrociocchi.
A titolo di cronaca si segnala che a Case Cocchi il 20 maggio del 2000, su iniziativa del sottoscritto, in rappresentanza dell’Associazione Pedicino di Santa Francesca, e dell’amico Argentino Tommaso D’Arpino, in rappresentanza dell’Associazione A.R.I.S. di Sora, con la partecipazione attiva degli abitanti della contrada e il sostegno del Comune di Veroli nella persona dell’allora sindaco prof. Danilo Campanari, fu scoperta una lapide commemorativa, a ricordo degli avvenimenti legati alla reazione filoborbonica. La lapide reca la scritta:

 

QUESTA CASA FU L’ABITAZIONE – DI OLIMPIA LISI IN COCCO – E TRA IL 1860 ED IL 1862 LA BASE OPERATIVA – DI LUIGI ALONZI DETTO CHIAVONE – COMANDANTE IN CAPO DELLA GUERRIGLIA – ANTINAZIONALISTA – SULLA FRONTIERA PONTIFICIA.

All’evento, in rappresentanza delle istituzioni, presero parte i sindaci di Veroli, di Monte San Giovanni Campano e di Castelliri e gli assessori alla Cultura di Boville e Sora. Alla presenza di un folto pubblico, proveniente da diverse province del Lazio e della Campania, e degli alunni della Scuola Media Statale “G. Mazzini” di Veroli, avvenne il taglio del nastro ad opera di Nicola Cocco discendente di Olimpia.
Nel mondo delle tradizioni popolari si segnala la paziente opera di raccolta di oggetti effettuata dall’Associazione “La Vetta”, confluita, anche grazie alla lodevole disponibilità dell’Amministrazione Comunale di Veroli, nel Museo della Civiltà Rurale, ospitato in via Franco dè Franconj.

Museo della Civiltà Rurale

Questa istituzione raccoglie documentazione di primo ordine sui vari aspetti della vita quotidiana degli abitanti di Veroli fino agli anni del boom economico. Di notevole interesse è l’esposizione dedicata all’Antico Confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie, con riferimento al Brigantaggio, attraverso documenti, foto e reperti di superficie, provenienti dai siti degli accampamenti citati nel diario dello Zimmerman e dai  ruderi degli avamposti e gabbiotti.
Voglio segnalare che tra i siti degli accampamenti studiati, come sulla cresta di Monte Pratelle siano presenti brani di muretti a secco di più 50 capanne, e la ricerca di superficie abbia portato al ritrovamento di numerose monete degli stati preunitari, medagliette votive, fibbie, parti di armi da sparo e palle di avancarica.
Ci piace concludere questo paragrafo con le parole del giornalista Guglielmo Nardocci, inviato di Famiglia Cristiana, che, a proposito del brigantaggio nel nostro territorio, così si è espresso:

La storia di quelli che i libri di storia risorgimentali definirono frettolosamente “briganti” non è solo motivo di attrazione turistica con la cosiddetta via dei Briganti, che va da Sora a Veroli e Trisulti passando per i casali di montagna dei centri di Scifelli, I Cocchi, Fontana Fratta e Santa Francesca. Quelle vecchie vicende, per dire la verità, mordono ancora, perché la memoria di coloro che combatterono per Francesco di Borbone re di Napoli e per il Papa e furono uccisi in molti casi in modo barbaro e crudele vive nei discendenti, divide e fa ancora discutere segno di un’unità d’Italia fatta da poche élite e raccontata male, dalla parte di chi ha vinto. (G. Nardocci, “Terra di briganti e palloncini”, in Famiglia Cristiana, LXXX, 2010, fasc. 28, p. 62).

Dott. Achille Lamesi

Avamposti e gabbiotti sanitari lungo la linea di confine tra Stato Pontificio e Regno delle due Sicilie

Il territorio montano di Santa Francesca nel comune di Veroli, rappresentava l’ultimo lembo di terra dello Stato Pontificio, a confine con il Regno delle Due Sicilie ma come ricorda Gaetano Moroni alla metà del XIX sec. vi esistevano tre laboratori per la produzione di cappelli “ordinari”, probabilmente di paglia.

A testimonianza rimangono le colonnette lapidee che rappresentavano la linea di confine fra i due importanti Stati preunitari.  Decorate con un giglio stilizzato borbonico e il numero progressivo (sul lato del Regno delle Due Sicilie), le chiavi di S. Pietro e l’anno in cui sono state collocate (sul lato verso Roma). Al disopra una scanalatura rappresenta la linea di confine ed indicava dove trovare la precedente e la successiva.
Per gestire le risorse del territorio, per i terreni, per il legname, per i pascoli, per le erbe, per i raccolti e il commercio delle merci, si rese necessario stabilire una linea di confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. (Sul confine vd. A. Farinelli-A.T. D’Arpino, Testimoni di pietra. Storia del confine tra Regno delle Due Sicilie e Stato Pontificio, [Luco dei Marsi 2000]). Una vera linea di confine, in realtà non era ben tracciata sul territorio, anche sé esistevano dei cippi tavolari di confine tra comuni. Vi erano tanti piccoli tratti per altro mai definitivi, perché stabiliti da controversie locali.
Controversie e trattative, durate circa quattrocento anni portarono alla stipula di un Trattato sottoscritto a Roma il 26 settembre 1840 e ratificato il 5 aprile 1852. Per il Regno delle Due Sicilie il decreto di ratifica fu firmato da Ferdinando II, mentre per la Santa Sede, il sottosegretario di Stato cardinale Giacomo Antonelli in nome di Pio IX. Questo Trattato prevedeva sedici articoli e l’installazione di 686 termini di confine dal Mar Tirreno all’Adriatico. Furono posti nei punti in cui il confine faceva spigolo e seguivano dei riferimenti naturali evidenti sul terreno, o nei luoghi in cui vi era il transito di merci e uomini da uno stato all’altro per riscuotere le dovute tasse.
La colonnetta n. 1 partiva dal Mar Tirreno, dalla foce del fiume Canneto, tra Fondi e Terracina, la n. 686 era collocata nel territorio di Ascoli Piceno al ponte di barche di Porto d’Ascoli sull’Adriatico.
Alcune colonnette erano chiamate “maggiori” in quanto di maggiore dimensione e perché poste in punti strategici, le altre dette “minori” erano ubicate in settori di minor importanza. Queste ultime, alte circa un metro dal “radicone”, sono più basse di 42 cm rispetto le precedenti e hanno un diametro di 40 cm. contro i 45 delle maggiori. Entrambe presentano un basamento infisso nel terreno al disotto del quale una medaglia in ghisa stabiliva che era un segnale ufficiale del posto di confine. Le prime cinquanta vennero poste a dimora nel 1846 e sono quelle prossime al Mar Tirreno; le altre furono posizionate nel 1847.
Di seguito riportiamo la posizione topografica di alcune colonnette esistenti sul nostro territorio comunale. Da Casamari, che rappresentava la sede di un’importante dogana sulla via Mària, si giunge alla località dell’Antera dove insisteva la grancia omonima di proprietà dei monaci di Casamari. Nella valle sottostante, in un bosco di querce e castagni, abbiamo la colonnetta n. 169; più in alto, in direzione del nord la n. 170, mentre alle spalle della grancia, lungo il margine destro di una stradina asfaltata che conduce a due abitazioni e in prossimità della sua fine, si nota la n. 171.
In direzione della pineta sovrastante le due case, nei pressi di un uliveto, vi è la n. 172; procedendo verso il monte Castellone la n. 173 ed appena superata la pineta, giunti alla sommità dello stesso monte, la n. 174. Quest’ultima è facilmente raggiungibile dalla contrada di Fontana Fratta, incamminandosi in direzione di Monte Cornito si incontra una strada brecciata che ci conduce alla colonnetta, posta su un rialzo roccioso. Tra Monte Cornito e Monte Castellone, sulla destra di detta strada, appare la n. 175 circondata da cespugli.
Lungo la Strada Provinciale Veroli-Sora, tra Fontana Fratta e Fontana Grande, in direzione della Selva, sulla destra si apre una strada sterrata che conduce alla ex discarica di Monte San Giovanni Campano, superata di poco, lungo un antico tratturo in disuso, troviamo la n. 176. Questo cippo è di dimensioni maggiori perché rappresenta un termine dove confluivano i confini di Sora, Castelluccio di Sora (ora Castelliri) e Monte San Giovanni (ora Monte San Giovanni Campano).
Da questa colonnetta, si attraversa la provinciale Veroli-Sora e salendo lungo la valle si arriva a Fontana Fusa; qui, a circa trecento metri dalla sorgente, lungo un tratturo si nota la n. 177. Questa colonnetta è stata ruotata sul suo asse, in epoca non meglio precisabile e, quindi, non sta più nella posizione originaria.
Dove il confine tagliava la vallata e saliva alla volta del Monte Tartaro, a quota 1200 m., in un avvallamento della cresta appare la n. 178, accanto ad essa vi è un cippo tavolare riverso sul terreno; da qui si arriva all’area sacra di Pozzo Faito ove, all’interno della piccola conca naturale, prima del probabile pozzo votivo ammiriamo la n. 179, e poco dopo (a circa 50 m.) incontriamo la n. 180. Come prevedeva il Trattato, tracciando una linea retta tra le due colonnette, il pozzo viene tagliato quasi a metà e, così facendo, si consentiva ai pastori di entrambi gli Stati di usufruire delle sue preziose acque.
Proseguendo lungo il sentiero del CAI, indicato con segnali di colore bianco e rosso, in direzione della montagna, e superato il bosco di Macchia Faito si innalza la n. 181, mentre continuando in direzione nord ed imboccato il canalone fino alla località Faggio Grosso ritroviamo la n°182.
Giunti a quota 1516 si trova la n. 183 e, più in avanti, a quota 1340 le nn. 184 e 185. Dalla n° 186, che rappresenta il punto di confine tra Veroli, Sora e Monte San Giovanni Campano, alla n. 198, ubicata tra Veroli ed Alatri, si attraversano i siti di Serra Comune, Vado la Rocca, Vado dell’Olmo e Peschio Macello; queste ultime rappresentano il confine tra Lazio Abruzzo.
Questi confini allora tracciati così bene, oggi costituiscono in molti casi i confini comunali, provinciali e regionali. Quindi ha ancora un senso che queste colonnette vengano ripristinate nella posizione originaria e tutelate ed assieme ad altri testimonianze architettoniche e  paesaggistiche rappresentano la meta di piacevoli escursioni.
Lungo le alture e i valichi del confine, erano dislocati avamposti papalini che dipendevano da una gendarmeria, sede anche della dogana, sita a Santa Francesca. Essi ospitavano militi di confine con compiti di controllo militare e, all’occorrenza, di controllo doganale sulle merci. Al passaggio delle persone con le loro mercanzie, essi riscuotevano un tributo e rilasciavano un lasciapassare scritto.
Gli stessi avamposti furono utilizzati anche come gabbiotti sanitari all’interno di un Cordone Sanitario Terrestre risalente al 1835-37 e attuato in sèguito ad una forte epidemia di colera, insorta nel vicino Regno Borbonico. Lungo la linea degli avamposti di confine esistenti, se aggiunsero altri sì da realizzare un cordone detto “infetto” perché posto a diretto contatto con il confine. A circa un miglio dalla prima linea, verso l’interno dello Stato Pontificio, né fu realizzata un secondo detto “cordone sano”; in tal modo al loro interno si costituì una fascia di controllo  definita “zona sosta merci”. Il cordone era caratterizzato da strutture in muratura chiamate “Gabbiotti Sanitari”, capaci di ospitare quattro-cinque persone, e spesso poste nelle vicinanze di strutture militari o anche coincidenti con le stesse come si può desumere dai ruderi ancora oggi visibili.
Compito degli addetti era quello di controllare le persone che provenivano dal Regno. Una dettagliata pianta del confine riferita alla “LINEA di demarcazione di Stato fra la Provincia di Frosinone Dominio della S. Sede ed il Regno di Napoli”, riporta su pianta e in elenco i gabbiotti per un tratto a partire da Sonnino attraverso San Lorenzo, Vellecorsa, Castro, Falvaterra, Veroli, Alatri, Collepardo, Guarcino Vico e Filettino.
I gabbiotti sono elencati con numeri progressivi e sono descritti i luoghi dove sono collocati. Per quanto riguarda il tratto di confine di Veroli con il Regno delle due Sicilie, coincidente con il territorio delle frazioni di Fontana Fratta e Santa Francesca, sono indicati i siti di Fontana Fusa (n. 154), di Fontana Fratta (n. 155), Forca Fura (n. 156), Santa Francesca (n. 157), Prato di Campoli (n. 158), Santa Maria Amaseno (n. 159), Tesoro o Aia Cristini (n. 160), Scalelle “parte Diritta” (n. 161), Scalelle “parte Sinistra” (n. 162), Pratella o Portella (n. 163) e Valle Jumenta (n. 164). (Archivio di stato di Frosinone)
Il colera era causata da un bacillo, il vibrio cholerae che si moltiplicava colpendo fulmineamente gli uomini e manifestandosi come riporta Eugenia Tognotti con diarrea, talora accompagnate da dolori addominali, esse continuavano con scariche che, dapprima poltacee e miste a bile, diventavano liquide, incolori, con il tipico aspetto di acqua di riso. Contemporaneamente il vomito diventava un liquido acquoso, mentre cessava l’emissione d’urina e iniziava per il malato il tormento della sete. La perdita d’acqua da parte dei tessuti portava quest’ultimi a prosciugarsi e a contrarsi e ad assumere una sinistra colorazione cianotica che sembrava confermare i sospetti popolari di avvelenamento. Proveniente dal Bengala, da dove nel 1817, cominciò a propagarsi verso l’Ovest il colera raggiunse l’Italia nel 1835. Tra Regno di Napoli e lo Stato delle Due Sicilie fu esteso un cordone sanitario lungo 212 miglia che come ricorda la Tognotti per custodire le quali erano necessari 16.900 uomini che, con la minaccia di pene severe e la forza delle armi, dovevano impedire il passaggio di uomini e cose sospette […]
Ma questi argini, che possono apparire invalicabili, erano in realtà quanto di più fragile si possa immaginare: su di essi, in moltissimi casi, ebbero  ragione ‘l’oro, la colpevole ignoranza e l’ingordigia’. Ma, naturalmente, la violazione dei cordoni sanitari (e marittimi) non era dovuta solo all’incoscienza o a colpevoli interessi. I cordoni rappresentavano una rovina per una moltitudine di piccole economie familiari sia che si reggessero su lavori agricoli stagionali, che comportavano lunghi spostamenti come accadeva per i contadini abruzzesi che si recavano nella campagna romana; sia che si basassero sui piccoli commerci di derrate trasportate dalle aree di produzione ai mercati di consumo e alle fiere a dorso di mulo (o su battelli lungo il mare).

L’11 agosto 1835 il re di Napoli decretò l’istituzione del cordone sanitario terrestre che sarebbe dovuto immediatamente entrare in funzione lungo tutta la frontiera terrestre come dimostra il fatto che due giorni dopo erano già funzionanti quarantasette posti di guardia dalla foce del Tronto fino a Teramo4.
Un anno dopo tale cordone venne riproposto con provvedimenti disciplinari assai duri anche per le guardie che non solo dovevano sorvegliare e perlustrare giorno e notte, ma era loro proibito avere contatti con genti e merci sospette, e se mai qualcuna di loro «s’imbrattasse», doveva restare soggetta a contumacia, e se si era «imbrattato», per sua poca accortezza, sarebbe stato punito.

Preziosa al riguardo la testimonianza di Vincenzo Caperna che, nella sua pregevole monografia, così riporta per il 1837:

Da circa sei anni le popolazioni godevano pace, quiete, ordine, abbondanza, quando penetrò in Italia il fiero morbo del cholèra. Per liberare lo Stato, ancorché fossero state prese dal superiore Governo energiche misure e intercettate le comunicazioni con cordonate militari, proibite le fiere, i mercati, guardati i passi da truppe di linea, riserva pontificia e gente collettizia, nullameno il fiero morbo giunse fine a Roma. Dalla Terra di Lavoro comunicossi nel mese di Giugno (1837) in Montesangiovanni, Ceprano e altri luoghi. Veroli, e per l’infetto limitrofo regno e per i vicini paesi, temeva di giorno in giorno esserne attaccata. Più che per prese misure riconobbe la città essere stata esente per intercessione della Santa Patrona. Celebrarono quindi solennissima festa in ringraziamento ed onore della Protettrice nel 17 ottobre giorno di Sua Invenzione.

Con maggiore attenzione su questa festa si sofferma mons. Gaetano Moroni derivando dal n. 45 delle Notizie del Giorno di Roma che, così, riferirono il 21 ottobre 1837:

Rimase per Divina misericordia illesa questa città dal terribile flagello del morbo asiatico. La Magistratura, interprete del pubblico voto, videsi in dovere di solennizzare la ricorrente festività dell’inclita nostra protettrice s. Maria Salome con particolare pompa. Ornata pertanto con decente e ricca paratura la insigne chiesa della Madre de’ due apostoli Giacomo il Maggiore e Giovanni Evangelista, e splendente di numerosi e ben disposti ceri, rendeva vieppiù maestoso il venerato sagro busto della Santa. Tale festività fu preceduta da divota novena. Lo squillo de’ sagri bronzi e il rimbombo de’ mortari annunziarono l’alba del dì 17 d’ottobre dedicato alla Santa, e giorno destinato da’ verolani a sciorre il voto di riconoscenza verso di essa. Con edificante processione si portò il sagro busto della Protettrice alla sua titolare chiesa, levato dal Sancta Sanctorum dell’insigne cattedrale. Tanto i vesperi, quanto la messa solenne furono pontificati dal zelantissimo nostro pastore mg.r Francesco M.ª de’ marchesi Cipriani. Una ben concepita musica del maestro comunale sig.r Ubaldo Altafulla, eseguita da qualche professore estero e da’ dilettanti cittadini, rese vieppiù divota la festività. Il clero e le autorità civili e militari assisterono alla sagra funzione. La 4.ª compagnia del I.° battaglione de’ cacciatori, comandato dal sig.r cav. Giacomo Mazzolà, accrebbe alla festa maggiore lustro e decoro. Ogni angolo della città echeggiava di ben concertati pezzi musicali, ed in particolar modo di quelli della banda di detto battaglione de’ cacciatori. Nelle due sere della festa fu illuminazione generale per la città e sulla facciata del tempio; e furono incendiati due fuochi artificiali, in cui i variopinti colori e i bei capricci dell’artefice appagarono il gusto degli spettatori; ed in fine si elevarono due globi areostatici. Così ebbe termine la festa; ma non però la pietà e la devozione e la riconoscenza de’ verolani verso la Santa, a cui vanno debitori d’innumerevoli grazie, lietissimi sempre di possederla per Protettrice”

Nell’agosto del 1837, passando per Monte San Giovanni e da Ceprano, il contagio, come riferito da molti studiosi, raggiunse Roma. Ancora dal Moroni apprendiamo che Veroli, sempre per intercessione di Santa Salome, sfuggi al morbo ripresentatosi nel 1854-1855:

in cui di nuovo il cholera afflisse notabilmente Roma e lo stato pontificio, oltre altre parti d’Italia. Nel suo decorso non pochi viandanti morivano lungo le vie del territorio, senza che Veroli ne risentisse danno. Gli stessi suoi medici, cosa mirabile a dirsi, si portavano impunemente a curare ne’ prossimi luoghi invasi dal fiero malore, senza affatto contrarlo. Tra que’ del clero che si distinsero, si deve particolarmente encomiare la virtuosa abnegazione e l’edificante cristiana carità del Rm.° p. ab. d. Michelangelo Gallucci, benemerito comissario apostolico dell’archi-cenobio di Casamari, il quale animato dal proprio zelo accorreva in que’ dintorni co’ soccorsi delle consolazioni spirituali, nè rare volte fu visto apprestarli a capo scoperto sulla pubblica via, ed ovunque ne avesse avviso8.

A Napoli, nel Consiglio ordinario di Stato del 22 agosto 1836 come opportunamente evidenziato da Francesco Leoni, venne adottata la seguente risoluzione:

Sua Maestà ne resta intesa e vuole che si diano sollecitamente gli ordini per la formazione del Cordone sulla frontiera di terre, e sulle coste bagnate dall’Adriatico. Che gl’Intendenti dei tre Abruzzi abbiano la facoltà di Commissarî del Re coll’Alter Ego per tutto ciò che ha riguardo alla conservazione della pubblica salute, ed alla esecuzione del Cordone prescritto, e che i Comandanti delle Armi nelle Provincie eseguino esattamente gli ordini che si daranno a tale riguardo dai rispettivi Intendenti.
Che i Ministri degli Affari Interni, e della Polizia Generale si mettano immantinenti di accordo, e dispongano il rimpiazzo di quello che tra i detti Comandanti non siasi per lo innanzi prestato con tutta l’alacrità a questa specie di servizio dietro gli ordini dello Intendente, ed in caso di divergenza se ne faccia sollecitamente Rapporto in Consiglio; Che si ordini l’immediata partenza di un Battaglione di fanteria per gli Abruzzi; Che si faccia partire per la frontiera di Terra di Lavoro un’altra partita di fanteria e Cavalleria uguale a quella che fu spedita nell’anno scorso per somigliante motivo; Che tre Commissarî di Polizia ed altrettanti Uffiziali di Stato Maggiore siano spediti nelle tre Provincie di frontiera per percorrere continuamente il Cordone, e mantenere la più stretta osservanza ciascuno sotto gli ordini dell’Intendente; Che la legge Marziale sia chiamata in vigore per punire le infrazioni del Cordone medesimo, e che vi sia dia la più estesa pubblicità.
Che gl’Intendenti di Teramo, Chieti, Molise, Capitanata, Bari, ed Otranto propongano quanto crederanno conveniente rinforzare il Cordone Marittimo, e frattanto ne curino la più esatta osservanza.
Che di tutt’i sopraindicati provvedimenti se ne curi l’esatto adempimento, e se ne dia conto con un Protocollo di esecuzione da spedirsi alla Maestà Sua9.

Agli inizi dell’autunno del 1837 la fase dell’emergenza può considerarsi conclusa come sottolinea sempre il Leoni sulla base di una comunicazione dell’Intendente di Chieti inviata ai sindaci dei Comuni della Provincia nella quale si poteva leggere:

Signori:
Fra i mali prodotti dal Cholera Asiatico, che disgraziatamente si diffuse in questo Regno, vi fu quello d’impedire le comunicazioni coll’Estero. Il Governo Pontificio avendo cinto di cordone i confini di quello Stato col Regno ne impediva l’entrata, che ora permessa sotto riserve Sanitarie, ed ora del tutto vietata, recava un grave danno al commercio, ed all’industria degli abitanti di questo Regno medesimo.
Cessato in questo il Cholera Asiatico, e rimasto in qualche Comune, già vicino a cessare; ed essendo avvenuto altrettanto nello Stato Pontificio, il Regio Governo ha stabilito un accordo con quello permettendo l’entrata in questi Reali Dominii delle provenienze da detto Stato per la via di terra, quante volte le persone fossero munite di un Certificato di buona condotta sanità, rilasciato dall’Autorità del luogo donde provvengono, ed esibito agl’Impiegati di Polizia nella nostra Frontiera. E così per reciprocanza munite di simili Certificati, potranno le provvenienze da questo Regno essere ammesse nello Stato Pontificio.
Nel comunicar loro una siffatta determinazione, l’autorizzo a rilasciare gl’indicati certificati di sanità che si gode nel Comune di loro Amministrazione a tutti quelli che vorranno portarsi, o passare per lo Stato Pontificio, onde possano coll’esibizione del medesimo liberamente entrarvi. E perché tali certificati non incontrino difficoltà per la ricognizione della firma del Sindaco, prima di consegnarsi si rimetteranno nel I° Distretto a questa Intendenza, e negli altri due alle rispettive Sotto Intendenze per esservi apposto il corrispondente visto.
Vedranno da quanto ho loro manifestato le benefiche intenzioni di S.M. il Re N.S., nel favorire l’industrialità, ed il commercio nazionale, ed il bene de’ suoi amatissimi Sudditi10.

Il quadro sul cholera, nell’area prossima a Veroli, qui brevemente tracciato non può non comprendere il richiamo a due testi composti nel 1836-1837 dal medico Giuseppe Bosi per i monaci dell’Abbazia di Trisulti ed editi nel 1966 da Domenico Torre.
Nel primo, dal titolo Memoria per servire di norma a chi brama di preservarsi dal cholera-morbus e di ricevere, o dar soccorsi prima che giunga il medico al letto dell’infermo con un piccolo trattato sull’oggetto istesso per servire alla Certosa di Trisulti scritta e dedicata al reverendissimo  padre don Benedetto De Carmelis priore in detta Certosa, sono descritti l’origine, i caratteri dell’epidemia, le precauzioni per evitare il suo sviluppo, il comportamento da tenere nelle comunità colpite dal morbo e i primi soccorsi.
Nel secondo, dal titolo Metodo curativo del Cholera-Morbus che fa prosecuzione e compimento di un manuale umiliato […] al reverendissimo  P. don Benedetto De Carmelis priore della Certosa di Trisulti, l’A. si dilungava sulle cura da prestare ai malati e sulla necessità che la piccola comunità religiosa conosca bene lo sviluppo e l’entità dell’epidemia in modo da potersi essa stessa difendere dal colera in considerazione della difficoltà che un sanitario potesse, celermente, raggiungere Trisulti, lontana e isolata da centri abitati.
In merito alla realizzazione del Cordone Sanitario, attraverso la ricerca sul campo e lo studio dei manufatti esistenti, si può desumere che furono adattati a Gabbiotti Sanitari i preesistenti avamposti militari di linea edificati dal governo pontificio, per consentire, da un lato, un’attività di controllo militare sul confine e, dall’altro, una sorveglianza doganale per lo spostamento degli animali e delle merci varie condotte da persone che, generalmente, cercavano di evitare la via Mària, dove i controlli erano più intensi per la presenza della dogana di Casamari.
Essi erano collocati nei valichi principali di comunicazione fra i due Stati, a notevole distanza tra loro e ostacoli naturali li separavano, per realizzare un controllo più serrato, e consentire di comunicare facilmente a vista, si rese necessario l’inserimento di altre strutture di avvistamento lungo la linea. In parte costruiti in muratura, ma maggiormente erano costituiti da capanne con muri a secco e copertura lignea, che richiedevano poco tempo per la realizzazione.
Tutti questi presìdi gestiti dai militi di confine, dipendevano da una gendarmeria sita a Santa Francesca, che nel 1851 assunse il ruolo di dogana. Una Notificazione del Ministero delle Finanze del Governo Pontificio emessa il 24 settembre del 1851 e firmata dal Pro-Ministro delle Finanze Angelo Galli, recita:

Dacché venne soppressa la Dogana di Veroli sul confine napolitano siccome un punto troppo interno allo Stato, rimase presso che scoperta di sorveglianza la lunga linea della Dogana di Casamari a quella di Filettino. A garantire pertanto gl’interessi della Finanza, giusta l’oracolo della SANTITA’ DI NOSTRO SIGNORE, si dispone quanto appresso.

1. Col giorno 20 del prossimo Ottobre viene istituita una nuova Dogana, ed un Picchetto in Santa Francesca a metà di quella linea, punto su cui fanno capo le molte vie procedenti da Regno.
2. Gli stradali da battersi esclusivamente per l’introduzione e per l’estrazione delle merci e dei bestiami sono li seguenti.
Per le province della Valle di Roveto Regno di Napoli la via che dal punto detto dell’Amaseno passando per mola Sant’Andrea, Aja nuova di Sant’Erasmo, e Chiesa di S. Filippo, mette alla nuova Dogana Pontificia.
Per le provenienze dalla Terra di Lavoro la via detta dell’Antera o Fontana Fratta che seguendo per lo stradale di Scifelli, casa Pinciveri, o casa di Ricci conduce alla riferita Dogana.
3. Qualunque merce o bestiame proveniente dall’estero o dall’interno che dopo il giorno suddetto si sorprendesse in istrade diverse da quelle sopraccennate, cadrà in confisca a forma in tutto dell’art.2 della Notificazione sulle strade doganali 15 Dicembre 1837.
Roma dal Ministero delle Finanze il 24 Settembre 1851. –  Roma 1851 – Nella tipografia della Rev. Cam. Apostolica. (Archivio di Stato di Frosinone)

Un altro documento fa riferimento alla Brigata di Santa Francesca, descrive la “Situazione della forza della Brigata […] con le variazioni avvenute nella medesima durante il mese di agosto del 1868”. Il documento, prodotto dalla Gendarmeria Pontificia, Legione di Roma, 2ª Suddivisione, è indirizzato al Governatore in Veroli. Il documento è firmato da Vincenzo Candelarese comandante la Brigata.
Al suo interno con numeri progressivi, sono elencati 49 militari:

1) Candelarese Vincenzo; 2) Proietti Luigi; 3) Chiorri Vincenzo; 4) Carinei Francesco; 5) Boccio Domenico; 6) Carinci Luigi I°; 7) Carinci Luigi II°; 8) Serapiglio Loreto; 9) Saccucci Giovanni; 10) Boccio Agostino; 11) Quattrociocchi Angelo; 12) Verrelli Carlo; 13) Velocci Giovanni; 14) Vacca Sante; 15) Velocci Antonio; 16) Velocci Salvatore; 17) Mossi Pietro; 18) Dell’Unto Antonio; 19) Pagliaroli Domenico; 20) Mancini Paolo; 21) Velocci Francesco; 22) Vacca Giuseppe; 23) Martelacci Angelo; 24) Cestra Luigi; 25) Verrelli Giuseppe; 26) Quattrociocchi Domenico I°; 27) Quattrociocchi Domenico; 28) Carinci Vincenzo; 29) Quattrociocchi Andrea; 30) Velocci Gregorio; 31) Quattrociocchi Demetrio; 32) Campoli Giuseppe; 33) Imperioli Nicola; 34) Scarsella Francesco; 35) Francesconi Francesco; 36) Fiorini Matteo; 37) Fiorini Clemente; 38) Maciacchi Gaetano; 39) Quattrociocchi Giuseppe; 40) Carinci Camillo; 41) Verrelli Domenico; 42) Verrelli Serafino; 43) Luffarelli Antonio; 44) Poretti Pietro; 45) Bussiglieri Aldino o Aldeino; 46) Fanni Pietro; 47) Liberatori Giovanni; 48) Sanità Pietro e 49) Cristini Luigi.

Nell’elenco, l’unico militare regolare dell’esercito pontificio era  Candelarese Vincenzo, comandante della brigata, aveva la responsabilità di gestire gli squadriglieri. Gli altri erano persone locali o provenienti da comuni limitrofi a Veroli,  arruolati come guide, in quanto conoscitori dei sentieri e delle tante mulattiere che attraversavano il confine, e soprattutto delle persone che vi vivevano, dedite alle attività silvo- pastoralali e al contrabando.  Il loro ruolo di spie doveva impedire che la gente fornisse sostegno agli sbandati dichiarati fuorilegge. Voglio far notare come tra i numeri dei nomi in elenco, al 35 compare Francesco Francescone soprannominato il brigante di Casamari e al 41 Verrelli Domenico fratello di Angelo Maria della banda Verrelli. Molti componenti, in seguito furono dimessi o arrestati per comportamento malavitoso o perchè scoperti a favoreggiare persone sospette. Durante la reazione filoborbonica,  molti che avevano militato come squadriglieri fecero parte della banda di Chiavone, successivamente furono arrestati o giustiziati per brigantaggio.
In merito alla forza militare dislocata a Santa Francesca si ha notizia di una rappresentanza di Zuavi Pontifici. Nel 1860 lo Stato Pontificio costituì questo corpo speciale, comandato dal Ten. Col. Anthanase de Charette, molti di loro erano di nazionalità franco-belga, ma non mancarono spagnoli ed ex ufficiali borbonici. L’uniforme in dotazione era composta da un copricapo chiamato kepì, la giacca corta in vita e il classico pantalone stretto in vita e largo alle ginocchia. Il colore della divisa era turchese con fregi rossi sulla giacca. Nei primi anni del 1860, battaglioni di zuavi pontifici furono mandati in forze alla frontiera tra Stato pontificio e Regno delle due Sicilie, nelle città come Veroli, Ceprano e Ferentino, per rinforzare le difese nei vari distaccamenti e in molti casi come scrive St. Jorioz, gli zuavi appoggiarono le mosse dei briganti legittimisti, causando molte perdite negli schieramenti piemontesi. In una serie di lettere del 1913 scritte da Francesco Francesconi indirizzate allo storico di Casamari, Don Mauro Cassoni, furono narrati molti episodi delle imprese a cui aveva preso parte. Tra questi, dove si parla della presenza degli zuavi nel territorio verolano, c’è l’incontro con un ufficiale piemontese a capo di una compagnia, che aveva sconfinato per circa tre chilometri nei pressi di Scifelli. Francesconi ci dice che non vi fu uno scontro, ma dopo essersi presentati, invitò l’ufficiale ad affrettare il rientro oltre il confine, temendo la reazione punitiva con l’arrivo degli zuavi. Alla domanda dell’ufficiale dove fossero gli zuavi, Francesconi rispose che erano dislocati a Veroli e una squadriglia a Santa Francesca. Verso la fine del decennio gli zuavi furono usati per reprimere le bande di ribelli ormai datesi al banditismo, nonostante che l’Editto Pericoli ordinava la resa a tutte le bande. Causa di ciò il nostro territorio fu teatro di numerosi scontri, dove oltre ai ribelli morirono molti civili. Il reparto venne definitivamente congedato nel 1871.

In questo paragrafo siamo lieti di riportare quanto ritrovato sui singoli manufatti disseminati in un’ampia fascia di territorio a partire dal confine con Sora, passando per quello con la Valle di Roveto ed arrivando al confine con Collepardo. Seguendo questa linea, nel 1998,  abbiamo tracciato il “Sentiero dei briganti”.
È stato possibile individuare cinque gabbiotti attraverso la menzione di queste strutture nella pianta del Cordone Sanitario del 1835, le testimonianze orali e la valutazione di elementi murari individuati durante le ricognizioni. Il primo è sito a Fontana Fusa, il secondo al valico di Forca Fura, il terzo a Fontana di Campoli (ingresso di Prato di Campoli), il quarto a Forca Palomba e il quinto all’Aia Cristini in contrada Trasoto. Ad essi, con funzione di controllo sanitario, vanno aggiunti il Distaccamento dell’Amaseno le cui notevoli testimonianze murarie, già appartenenti all’Eremo di San Cesareo, sono facilmente visibili nella zona oggi detta La Torre e l’avamposto principale della Vicenna già eremo di San Cristoforo, che avevano funzione di strutture logistiche per il controllo militare sul confine.
Prima di passare alla descrizione dei gabbiotti si riporta una sintesi di quanto emerso dallo studio dei ruderi dei due eremi. In località La Vicenna a quota 860, situata nei pressi di Fontana Fusa sono presenti i ruderi dell’eremo di S. Cristoforo risalente al 1000/1100; la struttura eremitica presente ancora alla metà del XIX sec., fu adattata ad architettura militare.  Sia dall’osservazione di una cisterna parzialmente intatta e dai muri perimetrali emergenti dal terreno, sia da ritrovamenti di superficie che da testimonianza orale fornita da Costantino Aversa che sin da ragazzo era solito frequentare il luogo per le attività silvo-pastorali. Dalla disposizione dei brani di mura ancora esistenti, sia pur con approssimazione, è stato possibile stabilire che l’eremo si estendeva per circa 20 m di lunghezza e 15 di larghezza. Nel lato sud-ovest è presente una cisterna collocata in un piano inferiore; parte delle pareti interne e del fondo sono intonacate con malta idraulica, superiormente sono visibili alcuni tratti della volta, ancora intatta nel 1940 secondo quanto riferito dall’Aversa.
Nel sito sono stati ritrovati numerosi frammenti in terracotta, riferibili a vasellame domestico. Il parziale esame di alcuni di essi ha portato all’identificazione di forme molto sobrie decorate da semplici decorazioni. Questi reperti sono stati sottoposti all’attenzione del prof. Giulio Busti, direttore del Museo Regionale Umbro della Ceramica di Deruta. Dalla sua analisi è emerso che le terracotte appartengono a diverse epoche: i reperti più antichi sono riferibili al periodo tardo antico e quelli più recenti alla cultura del basso Medioevo. Nel terreno intorno alla cisterna, sono state rinvenuti, sempre in superficie, reperti ossei, identificati dall’Istituto di Osteologia e Miologia della Facoltà di Veterinaria di Perugia, appartenere a suini, bovini ed equini. Sempre in superficie è stato rinvenuto un fiorino d’argento, recante un giglio su una faccia e l’immagine di San Giorgio, il santo guerriero, caratterizza l’altra. Altre monete, pontificie e regnicole, sono tutte ancora da catalogare; ad un primo esame sembrano essere medioevali e, soprattutto, ottocentesche. Il sito consente un’ottima visuale della sottostante vallata di Santa Francesca e un colpo d’occhio consente un facile collegamento con il Distaccamento dell’Amaseno. Oggi conosciuto come Torre medioevale in contrada San Cosimo, durante gli ultimi anni dello Stato Pontificio fungeva da presidio militare.. In tale periodo essa era chiamata col nome di Distaccamento dell’Amaseno, per essere posto su di una cresta rocciosa che domina la valle dell’omonimo torrente.
Le fonti menzionano, quali eremi più antichi fin dal sec. X, quelli di S. Benedetto e di S. Cesareo, dove si dice: “L’uno prospiciente all’altro sulle sponde dell’Amaseno. Ospitarono più volte S. Domenico di Foligno, importante figura eremitica peregrinante, che fondò i monasteri di Trisulti e di Sora”. (G. Trulli, Tutta Veroli, I, Dalle origini al sec. XIX, Isola del Liri 1989, pp. 97-98).
La struttura è sita su una cresta rocciosa, posta a cavallo delle Valli del torrente Amaseno Ernico e di Santa Francesca e che ben si presta quale punto di osservazione e avvistamento; funzione questa che ben assolve la presenza della torre, elemento che, generalmente, manca negli eremi mentre può essere presente nei monasteri specie se edificati in luoghi isolati. Ben lo testimonia l’alta torre esistita fino al 1814 a sinistra del monastero di S. Domenico a Sora.
? probabile che i monaci si siano insediati in una struttura preesistente, adattandola alle loro esigenze. Analizzando la disposizione delle mura affioranti dal terreno che circondano la torre non si evidenziano fondamenta riconducibili alla chiesa come, invece, si nota in altri eremi (S. Maria in Rivo Ursario o S. Michele Arcangelo nella zona di Mugliera).
L’intero complesso si estendeva per circa 25 m. di lunghezza e 10 m. di larghezza. La torre ha un’area  di base di circa 21 mq., l’altezza dell’edificio è di circa 9,80 metri mentre lo spessore delle mura, alla base, è di 80 centimetri. Esse sono realizzate in pietra locale ed impasto cementizio. All’interno delle pareti della torre sono evidenti i fori a tre livelli, per l’inserimento delle travi dei solai dei piani. La torre si erge su una cresta rocciosa, sul cui fianco si evidenziano tre file di mura in muratura, di sostegno dei terrazzamenti, poste in successione. Quella più in basso si erge da un piccolo pianoro, è lunga 20 metri e perpendicolarmente ad essa si evidenziano tre brani di mura, che probabilmente costituivano la suddivisione interna di locali.
Al disopra vi è il secondo gradone, alto 2 m., lungo 25 m., e posto obliquamente al precedente e con un estremo nel lato nord allineato con quello del primo e l’altro estremo che arriva alla base della torre.
Il terzo gradone parte circa 7,5 m di distanza dalla base della torre e termina a 2,5 m. dall’estremo nord del secondo.
Intorno alla torre sono state recuperate alcune monete di probabile epoca medioevale ed altre ottocentesche (sia pontificie che regnicole). Inoltre una chiave di fattura artigianale ed un sigillo notarile in bronzo recante uno stemma araldico delimitato da lettere incise.
Riprendendo la descrizione dei gabbiotti, la descrizione fa riferimento solo a quelli in muratura. Partendo da Fontana Fusa, località sita a Nord della contrada di Fontana Fratta, abbiamo un primo rudere, collocato su un rialzo roccioso, a circa 500 m dalla sorgente di Fontana Fusa. È conosciuto dai locali con il nome di “Avamposto Francese”. (M. Ferri-D. Celestino, Il Brigante Chiavone cit., p. 335).
Per un miglior controllo militare e doganale, l’avamposto era stato posto su una biforcazione di due sentieri: il primo con direzione nord-ovest conduceva al guado del fosso Passaturo e da esso si poteva proseguire o in direzione di Forca Fura o salire ai Pozzi dei Piani. L’altro saliva attraverso la Valle Innamorata in direzione nord-est arrivando alla Macchia di Faito e, quindi al pozzo votivo ed alla iscrizione rupestre, datata per la presenza della coppia consolore al 4 a.C. e ricordante gli Dei Indigites e Juppiter Atratus.
Dai muri perimetrali affioranti dal terreno si può notare che la struttura, di forma rettangolare, misura internamente 9,70 m di lunghezza e 7,50 m di larghezza. I muri perimetrali erano spessi 0,70 m. Essendo ubicato in un ottimo punto di osservazione e di controllo sul sottostante pianoro e sulla sorgente, erano sufficienti quattro-cinque persone per garantire, a rotazione, la sorveglianza del tratto di confine di sua competenza. Oggettivamente una struttura più grande non sarebbe servita poiché, poco distante da esso e, precisamente a circa 2 km, era presente l’“Avamposto Principale” detto “Della Vicenna”, che sfruttava la preesistente struttura dell’eremo di San Cristoforo. Questo avamposto si trova al Valico della Vicenna a quota 860 m ed ha a lato un pianoro a forma di conca detta La Piscina, così denominata in quanto l’acqua piovana vi stagnava per alcuni mesi.
Poco più a valle, nei pressi del pozzo detto Nirone, in direzione della Macchia delle Monache, su una cresta rocciosa che scende dal monte Pedicino, incontriamo un rudere, di forma rettangolare, con il lato maggiore lungo 9,5 m e il minore di 5,5 m; i muri perimetrali  hanno uno spessore di 0,60 m e sono alti 1,5 m. Considerata la sua struttura muraria, la sua ubicazione in un luogo appartato e per natura dominante, siamo propensi a considerarlo un’altra struttura di avvistamento; è ipotizzabile la sua appartenenza alla linea “sana” di controllo pontificio sulla sosta merci.
Passando al valico di Forca Fura, i resti del gabbiotto sono testimoniati dall’unica presenza di mura in tutta l’area rappresentata da due muri posti su piani sovrapposti, alti 2 m ca, che sorreggono due terrazzamenti. Altri brani murari affioranti dal terreno si dipartono perpendicolarmente dalla base dei precedenti consentendo di identificare i muri perimetrali della struttura e la ripartizione interna. Questi ruderi hanno uno spessore di 0,70 m e formano un rettangolo lungo 8 m e largo 6,30 m. Sparsi sul terreno circostante si notano numerosi frammenti di tegole.
Il valico rivestiva una notevole importanza in quanto, a quella quota, era l’unico che garantisse di passare dalla grande vallata che affaccia su Santa Francesca a quella dell’Amaseno Ernico che conduce sia a Prato di Campoli, sia nella Valle di Roveto, sia agli Eremi di Mugliera e alla Badia di Trisulti. I militari qui dislocati, per far fronte al bisogno di acqua, potevano disporre di due pozzi, uno detto “di Carlo”, più piccolo e sito a quota inferiore, l’altro, più grande e distante circa 1 km, posto alla stessa quota chiamato di “Sor Andrea” e in antico conosciuto come “Antoniano”. Dalla gendarmeria di Santa. Francesca, l’avamposto, si raggiungeva passando per Colle Grosso, Case Ferrante e Pozzo di Za Rosa; da qui il sentiero, ancora oggi ben evidente, appare scavato, a tratti, nella roccia.
Un’altra struttura, che in zona molti conoscono e che da poco è stata ristrutturata, è quella nota come “vecchio casotto della Forestale” così detta in quanto, sino agli anni ’50, vi sostavano le guardie forestali provenienti da Veroli; essa è posta a pochi metri dalla sorgente Fontana di Campoli sul margine destro della strada che sale per Prato di Campoli. Di forma rettangolare, con il lato maggiore di 8,30 m e quello minore di 5,85 m, ha un’altezza di 3 m; le mura hanno uno spessore di 0,60 m. La costruzione, appartenente al Cordone Sanitario del 1835/37, è chiaramente indicata e citata nella più volte citata Pianta col nome di “Gabbiotto Sanitario di Prato di Campoli”.
Un altro gabbiotto ritrovato, che nella Pianta è indicato con il nome di Scalelle “lato Diritto”, è collocato nel valico di Forca Palomba, posto tra Monte Scalelle e Monte Pontecorvo. Realizzato in un piccolo pianoro, ha forma rettangolare con l’entrata rivolta verso Sud. I militi pontifici, da questa struttura, controllavano il transito nel sentiero tra Prato di Campoli e le Pratelle che metteva in contatto la Valle di Roveto con Trisulti e Valle dell’Inferno.
All’Aia Cristini in contrada Trasoto, posto su una piccola altura a ridosso del lato sinistro della strada che da Santa Maria Amaseno conduce a Civita di Collepardo, abbiamo il gabbiotto sanitario indicato col nome di “Tesoro”. Oggi si presenta inglobato in una struttura privata di recente costruzione.
Ai giorni nostri, queste strutture si presentano parzialmente diroccate o ridotte a miseri brani murari appena affioranti dal terreno e coperti da vegetazione. In merito alla loro quasi totale distruzione possiamo avanzare due ipotesi estensibili anche ad altre strutture quali gli Eremi di Mugliera, l’Avamposto dell’Amaseno, l’Eremo di San Cristofaro e le strutture della linea di sosta merci.
La prima ipotesi è quella che l’abbattimento sia stato voluto sia dall’autorità pontificia  per impedire che gli stessi divenissero rifugio per i briganti, sia da quest’ultimi per avere più libertà di movimento costringendo i soldati papalini a scendere verso postazioni situate a quote più basse. La seconda ipotesi colloca la loro distruzione dopo la “presa di Porta Pia” (1870) quando i piemontesi braccarono i briganti sino al loro totale annientamento facendo saltare in aria ogni tipo di costruzione idonea a trovare un rifugio. A ricordare questa azione di repressione è il nome di una curva della strada che conduce a Prato di Campoli, ancora oggi chiamata della “Polveriera” poiché vi erano depositati i barili di polvere.
Si aggiunga che sino agli anni 1980, al loro declino contribuirono persone del posto, armate di picconi e pale, speranzose di poter trovare in queste strutture tesori nascosti provenienti da razzie dei briganti.

Dott. Achille Lamesi

II Appuntamento con Agricoltura Organica

Il secondo appuntamento con il docente Matteo Mancini, promotore dell’ Agricoltura Organica di Deafal ONG, è avvenuto lo scorso 21 Gennaio 2018 (https://lamasena.net/2017/12/13/lapproccio-del-circolo-lamasena-allagricoltura-organica-rigenerativa/) . Luca Pupparo e la Dott.ssa Laura Quattrociocchi gli organizzatori dell’evento, stavolta hanno scelto come luogo di incontro la sede operativa del circolo Legambiente Lamasena a Scifelli (https://lamasena.net/2018/01/31/agricoltura-organica-e-rigenerativa/). La caduta delle foglie durante la stagione autunnale appena trascorsa, la degradazione delle carcasse di animali o qualunque altra forma di materia vivente che diventa non vivente, non fa altro che contribuire alla deposizione delle Sostanza Organica (SO) nei suoli. La SO può andare incontro a processi di umificazione o mineralizzazione a seconda delle condizioni ambientali. Nel primo caso essa rilascerà alle piante che ne trarranno nutrimento, l’humus, nel secondo invece essa rilascerà componenti minerali.

Il docente Matteo Mancini ha ricordato l’importanza del processo di umificazione e la capacità di ritenzione dell’acqua dell’humus: un kilogrammo di humus infatti è in grado di trattenere circa 20 litri di acqua.  Il suolo inoltre è il secondo ambiente dopo gli oceani più ricco in carbonio, rappresenta una forma di riserva del carbonio, riserva che tende a diminuire ogni qual volta che le attività antropiche che impattano su di esso sono troppo brusche, a tal punto da provocarne un’ossidazione e una perdita sottoforma di anidride carbonica. Fino agli anni ’50, il contenuto medio della SO sui suoli italiani, si aggirava intorno al 75%. Dagli anni ’50 a oggi, si è osservato un progressivo impoverimento della fertilità, fino a raggiungere un contenuto medio si SO < 2%. Un suolo che sta bene in salute, presenta un buon grado di fertilità, mineralizzazione, drenaggio dell’acqua, possiede un’ottima capacità tampone, riesce a mantenere più o meno costante la propria temperatura rispetto a quella dell’ambiente aereo sovrastante.

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È stata eseguita un’analisi qualitativa del suolo circostante la sede operativa del circolo Lamasena, sondando il terreno con una vanga, prelevando suolo ad una profondità di circa 20-30 cm dalla superficie. Le prove andrebbero eseguite in condizioni di tempera, ovvero su suolo né troppo umido né troppo asciutto ed in primavera in quanto crescendo più piante si ha il massimo della vitalità. Lo strato di suolo immediatamente sottostante alla superficie, corrisponde a quello più ricco in humus (se presente) e nel suolo del circolo, è apparso abbastanza ricco in humus, di colore più scuro, in quanto quel terreno è da tempo non soggetto a meccanizzazione. A corroborare questa ipotesi, c’è stata la presenza dei lombrichi in questo strato, non sempre indicatori positivi. Certamente indicatori di fertilità e quindi di presenza di SO, ma a volte sono indicatori di zone di compattamento del terreno, soprattutto quando spostati più in superficie. Scendendo ancora più in profondità allo strato di humus segue uno strato di colorazione visibilmente più chiara e tendente al marrone, in cui è stato possibile osservare la presenza delle radici delle piante erbose colonizzatrici del suolo. L’osservazione delle radici permette di capire se il terreno è dotato di sufficiente morbidezza oppure viceversa tende ad essere più duro e resistente. Nel nostro caso le radici avevano una andatura diritta e non contorta, ad indicare un suolo soffice. Se il campo fosse stato soggetto a meccanizzazione ad esempio da un frangizolle che ara superficialmente a 20-25 cm di profondità, ricorda il docente, si sarebbe creata una soletta di lavorazione , sia per le radici che si sarebbero contorte, sia per l’acqua, la quale non avrebbe potuto drenare nel terreno, sarebbe ristagnata e avrebbe provocato erosione nel suolo (fenomeno superficiale), oppure se protratto nel tempo il ristagno avrebbe provocato smottamenti e frane (fenomeni profondi). L’azione delle radici nel suolo infatti è soprattutto meccanica, che protegge il suolo dal fenomeno dell’erosione, trattenendo aggregati di terreno sottoforma di particelle sferiche, che ironicamente il docente definisce “cous cous di terra”e rappresentano l’indicatore più importante della fertilità di un terreno.

Si prosegue con la diagnosi del terreno, analizzando prima la struttura e poi la tessitura. Per quanto riguarda la struttura, si analizza la presenza di piccoli sassolini nel terreno, fondamentali in quanto il 50% del terreno quando fertile, dovrebbe essere costituito da spazi, zone di aria,  che agevolano il passaggio delle radici. In caso di meccanizzazione, il peso della macchina, pressa il suolo a tal punto da compattare il 40% degli spazi di aria presenti, che vengono persi.

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Il suolo del circolo ancora una volta ha dato esito semi-positivo, presentando sassolini ma non molti spazi di aria. Dal punto di vista della tessitura, si va ad analizzare la presenza di sabbia, limo e argilla. In presenza di argilla, le particelle di terreno presentano una dimensione inferiore a 0,002 mm. Qualitativamente in assenza di metodi metrici, si può provare a impastare una qualunque forma con le mani, anche geometrica e vedere se il suolo resta fissato in quella forma, se torna nello stadio iniziale senza forma, allora non ho abbastanza argilla nel suolo (inferiore al 30%), mentre se riesco a creare qualcosa, il contenuto di argilla è approssimabile al 70-80%. La forma non si è mantenuta per cui il suolo del circolo non presentava molta argilla. La presenza di limo viene testata aggiungendo poca acqua ad una poltiglia di suolo, e strofinandola con l’attrito si genera schiuma. Nel nostro caso è risultata abbondante la presenza di limo. La presenza di sabbia (in proporzione restante delle due) e quindi di silice nel terreno, diminuisce la capacità di trattenere acqua, data la sua carica negativa è capace al contrario di attrarre minerali.  L’argilla dunque trattiene l’acqua, mentre la sabbia della tessitura trattiene principalmente i minerali. L’argilla per di più offre le condizioni per il mantenimento di un’elevata fertilità chimica e biologica. Il limo ha proprietà intermedie fra quelle della sabbia e quelle dell’argilla. La diagnosi del suolo prosegue analizzando dal punto di vista dell’olfatto, come si presenta un campione di suolo. Esistono due odori “estremi”da considerare, l’odore di bosco da un lato, la condizione ideale, oppure la condizione peggiore l’odore di fogna, in mezzo a questi due una varietà di odori possibili che si allontanano/avvicinano a uno degli estremi. Dalla valutazione dell’odore si percepiscono quali reazioni biochimiche avvengono nel terreno. L’odore di bosco infatti si identifica nella produzione di un particolare metabolita, la Geosmina, la quale anche a concentrazioni molto basse, da un forte sentore di terra e di fungo al sensibile naso di noi uomini. Viene prodotta soprattutto dagli Attinomiceti, in particolare gli Streptomiceti, un genere di batteri aerobi che formano miceli vegetativi ed è lo stesso odore che assume il compost quando prodotto bene aerobicamente. Nel terreno testato l’odore non era molto gradevole, non è stata percepita la Geosmina, altresì è stato percepito un odore di fogna, e dunque il prevalere di fenomeni anaerobici, gli stessi che caratterizzano l’odore di un biodigestato. Il docente è arrivato alla supposizione che il sovrapascolamento (poi confermato) ha creato una crostina superficiale in cui il terreno si è compattato dando luogo ai fenomeni anaerobici distruttivi. Si è passati al Test del perossido di idrogeno (H2O2), con l’intento di ossidare la SO per testare la sua abbondanza. Quanto più veloce e tanto più persiste la reazione al perossido (produzione di anidride carbonica attraverso bollicine di gas), tanto più l’SO è abbondante. Nel nostro caso l’SO è abbastanza abbondante. Nel Test al carbonato di calcio (CaCO3), eseguito versando il succo di limone (acido citrico) sul terreno e osservando quanto reagisce con esso, anche in questo si osserva la liberazione dell’anidride carbonica sottoforma di bollicine di gas. Il terreno sotto analisi è risultato povero di carbonato di calcio. Il CaCO3  è importante soprattutto per il pH del terreno che va a determinare l’assimilabilità dei minerali. Inserendo un coltello in parallelo al terreno all’interno della buca creata dal sondaggio con la vanga, si è riscontrata resistenza all’inserimento, per cui si conferma che la costipazione di animali ha compattato il terreno. La presenza di buche sulla copertura del terreno ha altresì confermato il segno di sovrapascolamento, dove soprattutto in caso di pioggia, gli animali compattano e impermeabilizzano il terreno. La copertura di piante erbacee è pressochè del 60-70%. L’inerbimento naturale infatti è il risultato di una interazione tra animali e suolo, è necessario che il suolo mantenga sempre una folta copertura di erbe.

Analisi qualitativa terreno (0-30 cm)

(Sede operativa del circolo Lamasena, Scifelli)

Proprietà Presenza Assenza
Struttura Fertilità
Lombrichi
Sassolini
Radici diritte Radici contorte
Tessitura Argilla (20-30%)
Limo (40-45%)
Sabbia (25-40%)
Reazione all’acqua Scarsa permeabilità dell’acqua
Reazioni biochimiche Fenomeni anaerobici putrefattivi Geosmina, aerobiosi
Test H2O2 Poche bollicine (media SO)
Test CaCO3 Pochissime bollicine CaCO3
Test del coltello Resistenza, compattamento Areazione
Sovrapascolamento Buche, copertura 60-70% Copertura omogenea
Trattamento consigliato:  è necessaria una riossigenazione del terreno. Si potrebbe fare una semina a spaglio di piante rigenerative come Trifoglio, avena, veccia, senape in primavera.

Nella seconda parte del corso, sono stati rivisti i vantaggi dell’uso delle cover crops o colture di copertura, ampiamente utilizzate in Agricoltura Organica e l’importanza della lavorazione del loro apparato radicale a profondità diverse, soprattutto in contesti problematici di ristagno dell’acqua. Le cover crops infatti oltre a dare un’azione strutturale al terreno, e di copertura erbosa anti-erosiva, permettono con l’autoconcimazione l’aumento del numero di microrganismi chemiosintetici (nitrosobatteri), i quali aumentano i processi di organicazione dell’azoto. Più azoto organicato significa più azoto disponibile e indirettamente più carbonio disponibile alle piante. Per cui può avere inizio anche il processo di umificazione. Gli acidi fulvici, le umine e gli acidi umici che costituiscono l’humus hanno una permanenza nel terreno di centinaia di anni.

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Si è proceduto alla produzione pratica di un bioconcimante fogliare da utilizzare come supporto alle colture che si vuole seminare su un terreno rinvigorito strutturalmente e dal punto di vista della tessitura.  Per preparare un biofertilizzante naturale,è necessario un bidone in plastica da 200 lt dotato di coperchio, e praticato un foro di circa 12 mm, si inserisce una guarnizione ed un gorgoliatore. All’interno bisogna immettere:

  • 100 lt di siero di latte (raccolto la settimana precedente);
  • 4 Kg cenere (o 4 kg farina di roccia, o 3 kg farina roccia e 1 kg di cenere);
  • 2 kg zucchero (in estate anche ½ Kg);
  • ½ kg lievito di birra o pasta madre;
  • Portare a volume (30 lt circa) con acqua non clorata.

 

Il siero della settimana precedente infatti ha avuto il tempo sufficiente alla moltiplicazione dei microrganismi durante i 7 giorni successivi alla raccolta. È un elemento ricco di proteine ed è antioidico, ovvero protegge dall’attacco dei funghi responsabili del “mal bianco”, ad esempio l’oidio della Vite (Vitis vinifera spp.). Il siero rappresenta dunque la parte viva del biofertilizzante in quanto ricco di microrganismi. La cenere (ripulita dal carbone) serve da substrato minerale dei batteri, questi ultimi infatti degraderanno la matrice minerale presente nella cenere, nutrendosene, gli elementi calcio, fosforo, potassio, sodio e magnesio contenuti nella cenere verrano fissati nei batteri, e dopo la loro morte, rilasceranno questi elementi. Si aggiunge lo zucchero ed il lievito dopo una loro attivazione in un altro contenitore mescolando con dell’acqua (ideale a 27-28°C). Infine si porta a volume con dell’acqua non clorata (quella potabile della rete idrica comunale non va bene in quanto è clorata, a meno che non si lascia decantare), per esempio raccolta da acqua piovana o acqua di sorgente, tenendo conto di fermarsi sotto la superficie del fusto di almeno 20 cm. È necessario infatti lasciare questo “spazio di reazione” in cui tutti i gas prodotti andranno ad accumularsi. Si agita mescolando bene il contenuto prima della chiusura. Si chiude il fusto e si inserisce un tubo flessibile nel foro creato sul coperchio, dilatando leggermente la guarnizione con un accendino, attraverso il gorgogliatore il tubo continua fino a riversarlo in una bottiglia che va riempita per ¾ di acqua e appesa ad un lato del fusto, all’interno della quale si formerà il biofertilizzante. Si controlla che si sia chiuso ermeticamente il fusto soffiando dall’estremità esterna del tubo e osservando se si gonfia il tappo del fusto. I microrganismi inizieranno da subito a lavorare e produrranno gas che andranno a riversarsi nella bottiglia, generando bollicine e i nutrienti prodotti si riverseranno nella bottiglia a lungo andare, cambiando la colorazione dell’acqua.

 

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Al posto della cenere, si può utilizzare un’altra materia prima minerale, più nobile, la farina di roccia, derivata dal basalto, roccia vulcanica più ricca dal punto di vista minerale, circa 25-30 minerali diversi, tra cui il silicio importante per aumentare la capacità fotosintetica delle foglie, attraverso l’aumento della superficie di riflessione della luce, funge da specchio ed è poco disponibile nel terreno. Il boro contenuto in essa è importante per l’allegagione dei frutti. Il rame invece è fondamentale per la fotosintesi, ma non bisogna eccedere in quanto è anche un metallo pesante tossico se riversato in grandi quantità.  La farina di roccia nel biofertilizzante può essere anche miscelata alla cenere. È inoltre buona come arricchente nel compost in rapporto di 1/10 (ad es. su 500 quintali di compost necessari a 1 ettaro di terreno, si possono aggiungere 50 quintali di farina di roccia). Se il terreno è povero di ferro, è consentito (anche in Agricoltura Biologica), l’addizione di solfati di ferro e magnesio in quantità di 2,3,4 kg all’anno. Questi dosaggi vanno mantenuti anche per l’addizione di boro, rame, magnesio o zinco. Nel biofertilizzante per un terreno con piante affette da clorosi ferrica (carenza di ferro) possono essere aggiunti i solfati, separati in due fusti (uno per il ferro, l’altro per il magnesio) in questi dosaggi:

  • 100 lt siero;
  • 3 kg farina di roccia;
  • 2 kg zucchero;
  • 0,5 kg lievito;
  • 0,5 kg solfato di ferro Fe2SO4 oppure 1 kg solfato di magnesio MgSO4;

Si ribadisce però l’importanza della fertilizzazione del terreno, in quanto se quest’ultimo è fertile, la pianta riesce a proteggersi di più dall’attacco dei funghi ad es. Peronospora, e quindi non è necessario intervenire con la concimazione chimica per la protezione delle malattie.

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In olivicoltura spesso si usa il caolino, un’argilla in grado di coprire foglie e frutti schermandoli dall’irraggiamento del sole, disorientando la mosca dell’olivo (Bactrocera oleae), questo può essere aggiunto al biofertilizzante di base cosi preparato, aggiungendo:

  • Per 100 lt di acqua:
  • 2 kg caolino
  • 1 kg calce spenta Ca(OH)2
  • 150-250 g solfato di rame CuSO4
  • 5 lt biofertilizzante

Questo biofertilizzante arricchito in caolino, va applicato nel mese di Luglio, prima della deposizione delle uova da parte della Bactrocera oleae. Ne va applicato in quantità rapportate alla dimensione/età della pianta di olivo ad esempio se la pianta ha 70-80 anni ne applicherò 4 litri di biofertilizzante a pianta, se queste avranno 35-40 anni, 2 litri a pianta. L’ideale  sarebbe di diluirlo al volume di acqua utilizzato per l’irrigazione; per la viticoltura in genere si usano  1000 litri di acqua/ettaro di terreno, in questo caso si possono diluire 60-70 lt di biofertilizzante in questi 1000 lt acqua/ha. Si può applicare nei primi anni quando il terreno ancora non è stato fertilizzato e non ha recuperato la struttura. Al biofertilizzante può essere aggiunto anche il letame di animali, soprattutto i poligastrici, vaccini, ovini, caprini a questi dosaggi:

  • < 10 lt siero
  • 40 kg letame
  • ½ kg zucchero
  • ½ kg lievito

Di questo biofertilizzante addizionato di letame, in 1 ettaro (ha) di uliveto/vigneto, ne uso 60-70 litri.

Si consiglia di preparare i biofertilizzanti ogni anno.

Esempio: Ho 3 ha di terreno e voglio fare 5 trattamenti corroboranti nel corso della stagione, di ogni trattamento ne applico 70 litri, quindi ho bisogno di 350 lt di biofertilizzanti per ha di terreno, quindi per 3 ha di terreno ho bisogno di 1050 lt. Meglio produrli tutti insieme, quindi ad es. in un contenitore grande da 1000 lt e un fusto da 200 lt per rimanere comodi. Si distribuiscono con una pompa a spalla a motore, o con la barra o con l’atomizzatore da vigna a seconda delle disponibilità.

Per arricchire i terreni si consiglia invece l’uso delle cover crops che arricchiscono le colture. Le piante da sovescio, vengono seminate a spaglio (in autunno), si fresa leggermente per interrare i semi. Dopodichè arrivate allo stadio di bottone fiorale le piante da sovescio vengono (tarda Primavera) trinciate leggermente su se stesse, oppure ancor meglio della trincia, sfalciate oppure ancora viene passato un rullo a martelli che le alletta, incide il fusto ma non lo taglia e interra poco a poco i semi. I semi germoglieranno con la successiva stagione autunnale delle piogge, ricoprendo di nuovo il terreno. Delle piante da sovescio allettate invece, avverrà prima la degradazione della leguminosa, più appetibile ai batteri e poi quella della graminacea. Il terreno cosi facendo rimane sempre coperto, non viene eroso e no perde la SO che gradualmente accumula con la degradazione delle colture da sovescio. La copertura del suolo inoltre evita che le spore della Peronospora colonizzatrici dei vigneti ma non solo, si disperdano con la pioggia e schizzino dal terreno sulle foglie, promuovendo l’infezione. Se voglio più carbonio e fertilità permanente, scelgo sovesci di Graminaceae (Poaceae), se voglio più azoto utilizzo sovesci di Leguminose, ad es. orzo insieme a favino, oppure farro (o triticale) insieme alla veccia, oppure ancora avena e sulla. Se voglio più struttura al terreno e areazione in quanto presenta costipazione, uso specie fittonanti come il trifoglio fittonante e le Brassicaceae. Dopo 3-4 anni di semina delle colture di copertura a ciclo annuale, si può passare alle coperture con colture perenni (es. loietto perenne, festuca dei prati, erba mazzolina) indice di pascolo evoluto, e si può raggiungere la vegetazione climax che ristabilisce le condizioni ideali che permettono al terreno di mantenere protetta la SO generata negli anni addietro di lavorazione con le colture di copertura.

Ancora una volta il Prof. Matteo Mancini, ha sorpreso i partecipanti al corso, e ha dimostrato loro con i suoi dati di lavoro, i numerosi benefici legati all’uso delle colture di copertura, i cosidetti sovesci. Durante il corso infatti non a caso, una partecipante ha ricordato come proprio nel territorio di Veroli, fino a circa 30 anni fa si praticava la semina di avena e veccia in autunno, poi in primavera si seminava sul letto creato da avena e veccia, il mais che cresceva cosi rigoglioso. Nulla di nuovo dunque, basterebbe ricordare quello che facevano i  nostri avi e tornare oggi, coscienti della funzionalità di questi metodi dopo il corso di Agricoltura Organica, a piantumare le colture da sovescio come una volta.

Dott.ssa Sara Leo

 

 

 

 

Agricoltura Organica e Rigenerativa

Domenica 21/01/2018, all’interno della sede operativa del circolo Legambiente Lamasena a Scifelli, si è tenuto un corso di Agricoltura Organica e Rigenerativa, una disciplina innovativa che si pone l’obiettivo d’individuare – con gli agricoltori e con gli allevatori – soluzioni pratiche per la produzione di alimenti sani, di qualità e a costi sostenibili.
Nel pieno spirito dell’ambientalismo scientifico di Legambiente, la disciplina combina pratiche colturali tradizionali con le moderne conoscenze tecnico-scientifiche.

Il corso è stato organizzato dalla dott.ssa Laura Quattrociocchi che, da anni, sperimenta le tecniche di coltivazione sinergica e biodinamica che, anche nelle campagne ciociare, sta – lentamente – formando una nuova consapevolezza sulle coltivazioni biologiche.

Il docente del corso è stato il prof. Matteo Mancini, dell’Università della Tuscia, che vanta un’esperienza internazionale di altissimo livello che lo ha visto coinvolto in progetti agricoli in Messico, Mozambico, Brasile e Angola.
Inoltre, insieme ai colleghi della ONG Deafal, studia e sperimenta sistemi agrosilvopastorali innovativi.

La vasta platea di partecipanti ha potuto conoscere i principi teorici e gli strumenti dell’Agricoltura Organica e Rigenerativa che si pone l’obiettivo della salvaguardia del suolo, inteso come modello di contrasto alla sua desertificazione, per garantire la massima salute delle piante.
Tra i temi del corso, sono state affrontate le tecniche di compostaggio, della preparazione del concime bocashi, i sovesci e le colture di copertura.

Il grande successo dell’iniziativa ha destato motivi di soddisfazione sia per gli organizzatori che per i partner dell’iniziativa che sono stati, oltre l’associazione Lamasena, il frantoio Pazienza di Santa Francesca di Veroli.